A volte siamo colpevoli di colpe che proprio non attengono alla tipologia delle nostre manchevolezze, colpe che non commetteremmo mai se solo fossimo liberi di scegliere, come quando, pacifisti nel profondo, siamo costretti a sostenere con le nostre tasse, senza averlo mai voluto, le spese per una produzione (esorbitante) di armi da vendere qua e là per il mondo; non meno odiosa e altrettanto insensata è la somma che per anni abbiamo versato, quali cittadini europei, per sovvenzionare regolarmente e lautamente (129 milioni di € ogni anno) un’istituzione nefasta, crudele e ignobile quale è la corrida, che il Parlamento europeo ha fino a tutto il 2015 sostenuto con un flusso di denaro pubblico, che solo nell’ottobre scorso è stato per la prima volta interrotto dal voto finalmente contrario di una maggioranza di deputati.
Siamo lontanissimi dalla fine della corrida, ma si tratta comunque di un passo importante per contenerne la diffusione, visto che, in assenza di questi aiuti da parte dell’Europa, le municipalità, che in Spagna si scontrano per decidere se disinvestire da altri progetti in favore della nobile causa della mattanza pubblica dei tori, incontreranno per lo meno difficoltà a sostenerne i costi. Al momento si stanno confrontando animatamente i vari partiti.
Per quanto basiti per doverlo ancora fare, siamo ancora qui, nel terzo millennio, ad argomentare. Si, perché in paesi della civilissima (?) Europa, Spagna, Portogallo, Francia del Sud, oltre che in tanta parte dell’America Latina, prospera un particolare modo di trascorrere graziosamente caldi pomeriggi in compagnia, lì sugli spalti dell’arena, dove, ad ogni appuntamento, vari tori, uno dopo l’altro, terrorizzati perché scaraventati in un luogo sconosciuto, pressati da uomini brutali e urlanti, prima indeboliti con lauta somministrazione di purghe, vengono incitati per un lungo corridoio scuro fino allo spiazzo della carneficina, a volte ricevendo all’ingresso un colpo di “ghigliottina” sulla testa tanto per cominciare fessurando le ossa del cranio: questo dopo che sono stati colpiti ai reni con sacchi di sabbia, con le corna limate non sia mai dovessero fare troppo male al loro assassino, cosparsi di trementina sulle zampe, con vaselina negli occhi e sulle mucose del naso, spilli nei testicoli. È solo a questo punto che il torero, grottesca figura in similcalzamaglia e scarpe lucide, abiti lucenti e lustrini, può finalmente dare prova del suo coraggio: coraggio che si esprime intanto nell’ordinare ai banderilleros a cavallo (vecchi cavalli a cui sono state tagliate le corde vocali, così non disturbano con le loro grida quando vengono feriti, squartati nel ventre) di inseguire e infilzare il toro sul dorso e sul collo con bastoni che hanno una punta d’acciaio lunga cinque centimetri, dopodiché può cominciare a chiamare e richiamare una bestia sfinita, terrificata e sanguinante, che vorrebbe solo fuggire, ma non c’è un dove, e mettere in scena quella che spaccia per rappresentazione di virilità: altezzoso, mento in alto e petto in fuori, sguardo fiero, puntato in quello appannato e sconvolto di chi è la vittima di tutto l’insensato orrore. Fino alla fine. Quando il toro perde anche la capacità di reggersi in piedi: allora il matador gonfia ancora un po’ il suo petto, gli si avvicina vigoroso e mima le fasi finali del finto duello, occhi negli occhi della bestia, che di tutto questo non sa il perché, mentre, vomitando saliva e sangue, abbandona la vita. Ma ancora non è finita perché continuano osceni rituali di taglio dell’orecchio nonché di giri davanti agli spalti per omaggiare il gentile pubblico, e poi ergersi vincitore sulla gigantesca sagoma rantolante a celebrare il proprio trionfo. Folla in breve delirio, nonostante l’ansia per il risultato sia francamente sprecata dal momento che, a fronte dei tre mila tori ogni anno trucidati solo in terra di Spagna, la morte del matador è evenienza verificatasi solo una quarantina di volte nel corso dei secoli, tutt’al più qualche incornata.
Ecco, in sintesi, in estrema sintesi, quello che continua ad avere luogo anche nelle piazze di paesi dell’Unione Europea. La cosa ci riguarda: perché fino a ieri tutti noi ne siamo stati sovvenzionatori ancorché involontari, perché ancora oggi c’è chi persiste a sostenere lo spettacolo come pubblico pagante nelle trasferte turistiche; perché le non frontiere, la globalizzazione, la vicinanza creano un brodo di cultura di cui tutti ci alimentiamo; infine e soprattutto perché della specie umana, autrice di tanta indecenza, siamo comunque parte.
Rispetto alle infinite forme di maltrattamento degli animali, la corrida ha l’aggravante di torturare in modo orribile il toro all’unico esclusivo dichiaratissimo scopo di divertirsi nel farlo: realtà sconvolgente nella sua semplicità, perché dà diritto di cittadinanza alla categoria del sadismo, che non è esattamente un fiore all’occhiello nella ricchezza del nostro psichismo. “Perversione sessuale in cui il soggetto trae godimento dalla sofferenza che infligge agli altri” o più genericamente “Tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”: comunque sia, di tanti interventi avrebbe bisogno fuorché di una esaltazione collettiva che lo ergesse a fondamento di un rito collettivo, di una celebrazione costantemente riproposta con la benedizione di ogni autorità. Rito in cui l’elemento sessuale in qualche modo sopravvive, per quanto disconosciuto, perché se da una parte il torero non persegue altro piacere che quello di tormentare e uccidere il toro, dall’altra la folla di spettatori/voyeuristi segue lo spettacolo in un crescendo di eccitazione fino all’orgasmo finale in cui la tensione si scioglie e il piacere si consuma nell’esaltazione collettiva. Si tratta di un piacere non nascosto con vergogna, come spesso succede in dinamiche analoghe, ma invece di rappresentazione ingigantita, di esibizione di impulsi: la condivisione sociale aumenta la fascinazione del rito, legittimato dal consenso legale e culturale.
Ma bisognerà pure alla fine raccontarsi di che cosa si sta andando tanto orgogliosi: la Rete pullula di siti in cui il tormento e l’uccisione di animali di vario genere (crush fetish e affini) è fonte di piacere per persone che nascondono quella che vivono come perversione vergognosa da condividere solo con selezionati compagni di merende, da tutelare per quanto è possibile dalla diffusione pubblica, foriera di inevitabile stigma. Bisognerà allora decidere se il piacere ricercato nel tormento di un animale è cosa di cui imbarazzarsi e da vivere in una solitudine pervasa da sensi di colpa o invece espressione di un machismo da ostentare con pubblico orgoglio: le due opzioni non possono coesistere. Non è superfluo rilevare che, se anche la violenza estrema della tauromachia viene ritualizzata in un luogo, in un tempo e in un contesto definito, la realtà psichica non può essere delimitata con gli stessi paletti di tempo e di spazio e di contesto. Ciò che avviene lì dentro resta inciso in chi ne è protagonista e in chi ne è spettatore: come nel corso delle guerre è illusorio pensare che la violenza che sul campo di battaglia viene incentivata resti poi lì confinata, allo stesso modo le esperienze sollecitate dalla violenza dell’arena non possono essere lì concluse, ma si allargano e si estendono al di fuori, contaminando inevitabilmente gli attori, attivi o passivi che siano.
Squallidi tentativi di nobilitazione con richiami, oltre che ad una tradizione obsoleta e incapace di giustificare alcunché, a prestigiosi aficionados quali Hemingway o Picasso risultano patetici nella loro inefficacia: saper dipingere o saper scrivere getta un sasso nello stagno dell’esistenza, i cui cerchi non si allargano certo ad includere il piano etico. La loro presenza evocata a nobilitare gli spalti non affascina più di quella più recente di Sarkozy: è tutto dire. E sostenitrici quali Lucia Bosè o Sofia Loren, antiche bellezze rapite dal fascino macho del matador, possono tutt’al più risultare perfette nel ruolo palpitante e arcaico di donna del boss.
La corrida porta con sé un altro problema, incredibilmente rimosso o minimizzato, vale a dire le sue conseguenze sul piano educativo: l’ingresso nell’arena è sì vietato ai minori di 14 anni, ma nelle scuole di tauromachia i bambini non solo sono ammessi ben prima, ad un’età che può essere di 10 o di 12 anni, a seconda dei paesi, e le ricadute sono straordinariamente più vaste. In primo luogo lo spirito della corrida non resta confinato ai tori uccisi nell’arena: non è certo un caso se in terra di Spagna le “fieste” in cui vengono perpetrati orribili crimini contro tante diverse specie di animali sono diffusissime su tutto il territorio, sono feste popolari a cui tanta parte della gente prende parte, e non pochi sono i giovani e giovanissimi: ciò che viene inflitto agli animali è di una tale creativa crudeltà da procurare vergogna anche solo a darne descrizione. Inoltre non è evenienza rara imbattersi in bambini in tenerissima età che vengono instradati dai genitori a “matare” animali mitissimi, tanto per ingannare l’attesa impaziente di farlo con un toro, come il papà o lo zio.
Nelle scuole di tauromachia vengono messi a disposizione vitelli di meno di due anni su cui fare pratica, vale a dire imparare a trafiggerli senza pietà con un colpo tra le scapole, che spesso, data l’imperizia dello “studente”, non risulta mortale, ma è solo l’inizio di una lunga agonia. Gli investigatori del partito animalista spagnolo Pacma, a cui si devono le immagini reperibili in rete, non nascondono di avere pianto vedendo i ragazzini celebrare il proprio “successo” mentre sullo sfondo gli animali morivano con un’espressione di terrore assoluto sul volto. Per altro è normale vedere la corrida in televisione: “Non sono riuscita a sfuggire in nessun modo all’orrendo spettacolo in Estremadura… in cui questa oscenità è mostrata in tutta la sua banalità sanguinolenta sui maxischermi dei bar, come se si trattasse di una partita di calcio” (→ L. Caffo V. Sonzogni Un’arte per l’altro, Graphe.it, pag. 28): lo spettacolo non è davvero vietato ai minori, e capita di incontrare in giro giovanissimi che mimano i gesti osceni del matador, evidentemente già entrati nel loro codice comportamentale. Nulla di strano, perché le cose, se si vuole farle bene, è meglio impararle da piccoli, quando il cervello è maggiormente plastico e la morale tutta da costruire: non è difficile, perché gli adulti trasmettono le loro convinzioni e il loro entusiasmo ai piccoli, con una sorta di contagio emotivo che non resta senza conseguenze e che da subito rende questi ultimi utilizzatori di secondo livello delle stesse situazioni.
È del 20 novembre 1989 la firma della Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, approvata dagli stati membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella convinzione che la natura stessa dei bambini è meritevole di una speciale cura e attenzione, tale da richiedere una particolare articolazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: vi si sostiene che “… gli Stati aderenti prendono tutte le misure legislative, amministrative, sociali ed educative appropriate per proteggere il bambino contro ogni forma di violenza, attentato o brutalità fisiche o mentali”. Come possono gli stati sottoscrittori di questa dichiarazione (e sono attualmente 93) proporre o accettare un tale tirocinio alla brutalità e alla prepotenza a quegli stessi bambini ai quali hanno assicurato tutela da ogni forma di violenza? Gli studi sulle conseguenze della violenza assistita, per tanti versi del tutto assimilabile a quella subita o praticata, sono oggi tali da non consentire ignoranza o superficialità di alcun genere, tanto più ad organismi prestigiosi e potenti.
In conclusione: se non esistono parole per invocare il perdono di ogni toro per avere trasformato la sua vita in martirio, difficile è reperire quelle che possano chiedere scusa ad ogni bambino per avere trasformato la sua grazia in indiscriminato sfoggio di ferocia.
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psicologa e scrittrice