14 Gen, 2019
La conferenza organizzata da LEAL con la collaborazione di Simone Sollazzo, consigliere comunale M5S Milano, nella prestigiosa sede di Palazzo Reale è stata trasmessa in streaming sulla → pagina LEAL Gruppi e a breve sarà caricata sul canale YouTube di LEAL, grazie alla collaborazione di Massimo Savigni.
Ringraziamo i relatori Niccolò Bertuzzi, Annamaria Manzoni, Massimo Raviola, Marco Strano, David Zanforlini per gli interventi e Anna Barbieri, che ha moderato la conferenza, che ha visto la presenza dell’europarlamentare Eleonora Evi e della Senatrice Simona Nocerino. Grazie anche a Stefania Corradini e Simona Donna responsabili di LEAL sezioni Ferrara e Torino, e a Marco Zecca, lifecoach, per il prezioso contributo grafico.

Un ringraziamento particolare ad Alessandro Del Vecchio, musicista e produttore vegano che di batte per i diritti degli animali. Alessandro non ha potuto presenziare alla conferenza ma ci ha inviato il suo messaggio personale e ha condiviso l’evento sui social: la sua voce, le parole e le immagini del suo videoclip “Strange world” hanno colpito ed emozionato la platea.
Abstract interventi conferenza, moderata da Anna Barbieri, medico e attivista LEAL.
Gianmarco Prampolini, presidente LEAL.
L’impegno LEAL contro il maltrattamento animale e raccolta firme
Sono migliaia in Italia gli animali di ogni specie che quotidianamente vengono maltrattati, torturati e uccisi. Le cronache non sempre riportano questi reati perché vengono considerati reati minori o perché sono reati sommersi. Anche quanto i colpevoli sono individuati, denunciati e vanno a sentenza le pene sono sempre esigue rispetto alla oggettiva gravità e alla crudeltà del reato commesso nei confronti di un essere vivente e senziente. Tutto questo avviene perché se nel nostro Codice Civile ci sono leggi che tutelano gli animali questa TUTELA non è contemplata nella Costituzione. Per questo lo scorso 12 settembre LEAL ha depositato in Corte di Cassazione a Roma una proposta di revisione costituzionale di iniziativa popolare per integrare l’art. 117 che già contempla la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali con la tutela del benessere animale. “Gli italiani ritengono che gli animali non siano oggetti e che la loro tutela non possa essere solo quella a difesa della proprietà o del sentimento umano per gli animali, ma che si debba tutelare il loro diritto a non essere uccisi crudelmente o maltrattati. Una integrazione che ci auguriamo venga accolta in modo da permettere ai giudicanti di applicare pene più severe nei casi di maltrattamento animale appellandosi al nuovo diritto che la Costituzione riconoscerebbe in capo a loro”. LEAL si dedica da statuto ai diritti degli animali e patrocina il “Rapporto sul maltrattamento animale in Italia” per l’anno 2016 e 2017 che raccoglie in più di mille pagine i reati emersi perpetrati nei confronti di ogni specie animale. A sostegno di questo importante progetto, LEAL ha lanciato sui social la campagna di sensibilizzazione “Maltrattare un animale è un reato: denuncia la violenza!”
Niccolò Bertuzzi, assegnista di ricerca e membro di Cosmos (Centre on Social Movement Studies) presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Scuola Normale di Pisa.
Oltre il maltrattamento. Prospettive sulla violenza (di specie) presso i movimenti animalisti italiani
Il maltrattamento (non solo animale) fa parte di una categoria socio/psicologica ancora più estesa: la “violenza”, uno dei principali temi affrontati dal pensiero sociologico novecentesco e una delle variabili utilizzate per spiegare il processo di modernizzazione. L’intervento passerà brevemente in rassegna alcune di queste teorie, per poi spostarsi a valutare il rapporto con il tema della violenza intrattenuto da diversi tipi di associazioni, gruppi e singoli attivisti coinvolti nell’animal advocacy in Italia. L’analisi si basa su uno studio empirico nel quale sono stati raccolti 704 questionari e 20 interviste in profondità. Alcune aree si concentrano specificamente sull’aspetto del maltrattamento, proponendo azioni di natura riformista e volte al miglioramento delle condizioni di vita degli animali non-umani nel minor tempo possibile e pertanto tramite l’intervento istituzionale e legislativo. Altri settori di movimento, al contrario, ravvisano proprio nella struttura specista delle società contemporanee la causa del problema: pertanto, con differenti gradi di flessibilità, preferiscono escludere il dialogo e le politiche dei piccoli passi, optando per discorsi volti a un mutamento culturale e strutturale.
Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice.
Gli animali e il rispetto: più in là della legge
Il maltrattamento degli esseri animali può assumere forme estremamente diversificate: se può essere immediato riconoscere quelle che si manifestano con atti di violenza contro gli animali cosiddetti di affezione, molto più complicato stigmatizzare quelle che sono il brodo di coltura di situazioni legalizzate. Riconoscere la violenza ovunque abbia luogo, evitando di misconoscerla anche attraverso un linguaggio che tende a darle una connotazione accettabile, è invece operazione fondamentale per il suo superamento; come è fondamentale la presa d’atto che esiste un legame non sempre immediatamente percepibile tra tutte le manifestazioni di crudeltà, quali che siano le forme in cui di volta in volta si esprimono.
Massimo Raviola, medico veterinario.
Il mito della razza, cani gatti e maltrattamento genetico – Che razza di Bastardo
Ti sei mai chiesto da dove arrivano le razze dei cani e dei gatti? Quali sono i meccanismi che regolano la selezione razziale degli animali venduti? Che senso ha commercializzare degli esseri viventi? Cosa sta dietro questo mercato? Siamo davvero coscienti e informati su cosa stiamo facendo ai nostri animali? Cosa fa un veterinario? Da un veterinario ti aspetti che scriva di animali, invece Massimo Raviola scrive, forse, più di noi esseri umani, e quello che scrive non è facile da digerire. Si interroga tutti i giorni sul senso del proprio lavoro, che è la tutela di un essere vivente e la tutela della relazione profonda che il cane e il gatto hanno con noi esseri umani, e da appassionato di animali e della vita, si addentra sotto la superficie del sistema. Accompagnandoci tra sorprese, scandali e dubbi, mostrando come gli animali di razza, proprio a causa dei metodi di selezione, siano molto, troppo spesso affetti da malattie genetiche di vario tipo, cardiache, articolari, oculari, del metabolismo ed altre ancora. Addirittura con alcune specifiche razze si arriva all’assurdo di selezionare specificatamente animali malati o malformati perché la malformazione è proprio la caratteristica estetica voluta, alimentando inoltre un enorme mercato degli affetti, che con l’amore per gli animali ben poco ha a che fare. A questo che è a tutti gli effetti un “maltrattamento genetico” si aggiungano poi i metodi di accoppiamento e di allevamento, la “distribuzione” ed il mercato illegale, la soppressione delle fattrici esauste e dei cuccioli poco tipici o imperfetti, la vendita come fossero merci. È ora di chiedersi qual è il costo che gli animali pagano per soddisfare il nostro piacere di volerli “di razza”.
Marco Strano, criminologo e profiler, presidente del CSLSG Centro studi per la legalità, la sicurezza e la giustizia.
Sviluppo del contrasto investigativo al maltrattamento degli animali
Studi criminologici avanzati ci suggeriscono che i crimini nei confronti degli animali sono un fenomeno delittuoso grave, sia per quanto riguarda la pericolosità sociale degli autori che per quanto riguarda il giro economico che ruota intorno ad alcune forme di maltrattamento. Sovente anche la criminalità organizzata è cointeressata al maltrattamento animale in special modo attraverso un giro di scommesse sui combattimenti clandestini di cani e sulle corse illegali di cavalli. La necessità di rendere più efficace il contrasto a questa tipologia di illeciti appare quindi evidente e tale efficacia è strettamente correlata a modifiche normative (prima tra tutti la possibilità di arresto facoltativo nei casi di maltrattamento), a una maggiore consapevolezza e formazione professionale degli organi di polizia giudiziaria e della magistratura e all’impiego di strumenti investigativi moderni ed efficaci, in special modo centrati su una raccolta, conservazione e consultazione mirata di dati provenienti da tutto il territorio nazionale. Il carattere transnazionale di alcuni traffici illeciti che coinvolgono gli animali, infine, induce ad auspicare dei protocolli di collaborazione internazionale tra le forze di polizia, così come già avviene per altre tipologie di reati.
David Zanforlini, avvocato del Foro di Ferrara e consulente legale LEAL.
Art. 117 lett s: la necessità di modificare la Costituzione per cominciare a difendere gli animali
In questo momento storico è indubbio che esista una sempre maggiore attenzione al “benessere animale”, non solo per quelli da affezione, ma per tutti gli animali in generale, siano essi in cattività, così come liberi in natura. Questa esigenza deve tradursi in una regolamentazione normativa capace di rappresentare il pensiero degli Italiani in questo campo, che di fatto si pone, per il diritto, come una via del tutto nuova. Infatti quello che è stato fatto sino ad ora, peraltro sino dalla promulgazione del Codice Penale nel 1930, è stato di tutelare il solo “sentimento umano per gli animali, perché nella Costituzione italiana gli animali non sono citati e tanto meno è indicato un diritto a una loro precisa collocazione nel nostro ordinamento, al punto da relegarli a semplici oggetti. Ora i tempi sono maturi perché anche la nostra Costituzione consideri gli Animali parte del nostro vivere quotidiano e così come è stato previsto dalla Costituzione di tutelare l’Ambiente, così dovranno essere tutelati gli Animali, perché, come l’Ambiente, anche loro non possono difendersi da soli.
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3 Gen, 2019
Conferenza organizzata da LEAL Lega Antivivisezionista e Movimento 5 Stelle Milano
a cura di Silvia Premoli e Simone Sollazzo
12 gennaio 2019
Palazzo Reale
Piazza Duomo, 14 – Milano
ore 16.00 – 18.00
Sala conferenze 3 piano
Ingresso libero
PROGRAMMA
Saluti
Simone Sollazzo, Consigliere comunale M5S
Silvia Premoli, giornalista, ufficio stampa e comunicazione LEAL
Proiezione video trailer documentario “DOMINION”
Interventi
Anna Barbieri, moderatore, medico e attivista LEAL
Niccolò Bertuzzi, assegnista di ricerca e membro di Cosmos (Centre on Social Movement Studies) presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Scuola Normale di Pisa
Oltre il maltrattamento. Prospettive sulla violenza (di specie) presso i movimenti animalisti italiani
Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice
Gli animali e il rispetto: più in là della legge
Gian Marco Prampolini, presidente LEAL
L’impegno LEAL contro il maltrattamento animale e raccolta firme
Massimo Raviola, medico veterinario
Il mito della razza, cani gatti e maltrattamento genetico – Che razza di Bastardo
Marco Strano, criminologo e profiler, presidente del CSLSG Centro studi per la legalità, la sicurezza e la giustizia
Sviluppo del contrasto investigativo al maltrattamento degli animali
David Zanforlini, avvocato del Foro di Ferrara e consulente legale LEAL
Art. 117 lett s: la necessità di modificare la Costituzione per cominciare a difendere gli animali
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27 Dic, 2018
Le nostre segnalazioni da non perdere!
Adriano Fragano
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23 Ott, 2018
Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.
“AFFANCULO MAIALE” è il titolo, francamente poco gentile, sulla copertina del quotidiano tedesco Die Zeit dell’8 ottobre. Ma perché mai il maiale dovrebbe raccogliere l’esortazione? Di certo, a trattamenti non di favore ci è più che abituato: tra gli animali peggio citati, insultati, diffamati, il posto d’onore va senza ombra di dubbio alla sua specie, a quei maiali, che continuiamo a non conoscere nonostante li abbiamo addomesticati, alias schiavizzati nel peggiore dei modi, da un bel po’ di millenni, dal 6000 A.C. dicono gli studiosi; abbiamo da allora lasciato alla loro “controfigura”, quella dei cinghiali, un destino di libertà che resta però vigilata e controllata, soggetta al piacere dei cacciatori, che così, pur lontano dalle lusinghe dell’Africa nera, possono fingere il brivido della caccia grossa, da alternare a quella a minuscoli volatili, che, per eccitante che sia, dopo milioni di individui impallinati e disintegrati, magari finisce per annoiare un po’.
I maiali hanno la sfortuna di vivere in ogni continente, se si esclude l’Antartide, adattandosi con una certa facilità a condizioni di vita differenziate, tanto che, se lasciati in pace, potrebbero vivere anche un quarto di secolo. Ma lasciati in pace non sono mai stati, dal momento che è dall’antichità che vengono sgozzati per essere mangiati e non solo: perché, è risaputo, del maiale non si butta via niente. Conoscenza appannaggio di gran parte dell’umanità, di cui l’uomo pare darsi vanto nel celebrare la propria diligenza nell’evitare sprechi, e di cui lui, il maiale, paga lo scotto: non solo salsicce, prosciutti e salami, ma grasso x candele; pelle e tendini x corde di strumenti musicali; setole per spazzole e pennelli. Ma non basta ancora: perché i maiali sono portatori di una tale (misconosciuta) vicinanza e parentela genetica con noi umani, che la sperimentazione su di loro non conosce confini e le valvole dei loro cuori battono in tanti petti umani, in cui hanno sostituito quelle originali malfunzionanti: realtà di cui non ci piace tanto parlare e tanto meno mettere in luce le implicazioni anche etiche.
Lo sfruttamento istituzionalizzato a cui i maiali sono regolarmente sottoposti ha raggiunto livelli numerici stratosferici: se quelli allevati in Italia sono all’incirca 8 milioni, le cifre si dilatano negli Stati Uniti, dove si parla di 70 milioni di individui uccisi ogni anno, a fronte della Cina, dove i milioni sarebbero 500. È proprio da questo Paese che arrivano le ultime notizie dell’orrore spacciate per razionalizzazione della produzione : sono ormai operanti i Pig Hotels, megastrutture che arrivano fino a 13 piani, nuove frontiere dell’allevamento che sfrutta lo spazio verticale per carenza di quello orizzontale, lager legali e ipertecnologici dove ammassare un numero prima inimmaginabile di individui e ucciderli massimizzando il profitto, dove centinaia di migliaia di suini e suinetti vivono e muoiono ingabbiati, senza mai avere potuto compiere un solo passo.
Se i numeri per loro stessa natura non suscitano empatia, ma al massimo uno sconcertato stupore, lo stesso non si può dire dell’immensità della violenza moltiplicata per ogni singolo individuo suino, comprensiva di evirazioni e taglio della coda, terrore, uccisioni a catena di montaggio, sadismo nelle forme più sconcertanti che ogni investigazione mette in luce. Tutto questo su esseri che sono giocosi, intelligenti, ricchi affettivamente; che fanno un po’ sorridere con i loro gusti alimentari che contemplano anche golosità articolate, per cui meloni, banane, mele e tanti altri frutti li fanno grufolare dal piacere. Sono naturalmente riservati e rispettosi di loro forme di igiene, per cui, in natura, fanno i loro bisogni lontano da dove mangiano e da dove dormono. Amano sguazzare nel fango che è la loro crema solare, perché ne protegge la pelle dalle scottature e tiene lontane le mosche. La scrofa è madre amorevole che costruisce un nido accurato per la prole, accessoriandolo con ramoscelli e rami che cambia ogni notte. Possono riconoscere i colori, sognano e, nelle parole poetiche di un loro grande estimatore nonché studioso, Jeffrey Masson, cantano alla luna. Quando sono liberi in natura, riconoscono l’odore degli esseri umani a 400 metri, e il fatto che ci evitino con cura è uno dei segnali della loro intelligenza: mai decisione fu più saggia. La performance della sedicenne Iris che, ad un talent, si è presentata con il suo maiale Pongo il quale, scodinzolando e apparentemente sorridendo, l‘ha seguita in una prova di agility ha mandato in delirio pubblico e giuria, l’uno e l’altra evidentemente a digiuno di qualsiasi conoscenza di un maiale non ridotto in salsiccia.
A fronte di questo ed altro ancora, la rappresentazione del maiale continua ad essere quella di un animale lurido, dotato dei peggiori istinti. Il perché lo sintetizza bene l’etologo Danilo Mainardi quando dice che “Anche il maiale possiede una sua intelligenza, ha capacità sociali e affettive: ma preferiamo non venirlo a sapere, perché quest’ignoranza indubbiamente ci facilita la digestione”. Ottima sintesi di un processo psicologico elaborato: possiamo infliggere agli animali tanta sofferenza solo sulla scorta di una imponente mistificazione. Il processo empatico che agisce da riconoscimento dell’individualità dell’altro, inibisce comportamenti aggressivi accorciando le distanze e permette di mettersi nei panni altrui non ha luogo dove interviene il disprezzo: chi appartiene ad un gruppo che si considera sfavorevolmente, è escluso dalla nostra attenzione empatica.
Se tutti gli animali sono disprezzati in quanto inferiori a noi, specie eletta, i maiali disprezzati lo sono ancora un po’ di più: ed è proprio questo enorme surplus dispregiativo a sostenere l’inenarrabile abuso che facciamo di loro. È questo il motivo ultimo del costante discredito, della rappresentazione ingiuriosa e diffamante che facciamo di lui, non a caso resistente ad ogni progressiva conoscenza etologica che ne metta in luce doti, bellezze, capacità, e che viene diligentemente e prudentemente ignorata. Il maiale è totalmente reificato nel linguaggio economico che, attento all’altalena dei prezzi, si preoccupa di distinguere il “suino pesante” da quello “leggero”. Ma ci permettiamo persino dileggio e scherno della sua sofferenza: “Facciamo la festa al porco” è uno dei graziosi slogan che ha accompagnato una delle tantissime sagre estive a base di scorpacciate di salsicce, accessoriata con manifesti in cui un maiale sorridente e ammiccante, corona in testa e forchetta in… zampa, celebra la propria uccisione: oltre il danno, una beffa oscena. Che compare e ricompare nelle immagini di musi di maiale a decorazione sconcia nelle vetrine di macellerie o sui tavoli dei ristoranti. Insomma abbiamo costruito a bella posta e sosteniamo ad arte lo stereotipo del maiale quale animale spregevole: questa rappresentazione riveste un potere disinibente e dà la stura ai peggiori atteggiamenti, i quali, lungi dal provocare disagio, vengono esibiti con spensierata soddisfazione.
Non si può certo sottostimare la valenza denigratoria di tutte le bestemmie che ne usano il nome per insultare divinità da cui ci si aspetterebbe un decisamente maggiore accudimento e magari anche qualche favore; ma anche un intercalare un po’ fuori moda non si astiene dall’insulto a lui diretto: porco cane e porca miseria, ma persino “Maremma maiala”, nel fioritissimo linguaggio toscano. È all’interno di questa totale denigrazione, di una diffamazione ingiusta e indegna che abbiamo deciso che quelli che consideriamo i nostri più bassi istinti e il richiamo ad una lussuria peccaminosa non appartengano in verità a noi come specie (eletta), ma vadano buttate fuori, proiettate su qualcun altro che raccolga su di sé l’indecenza, che mettiamo in pratica, ma non ci inorgoglisce. Eccolo lì allora il maiale, ricettacolo di sozzure, indegno e turpe: un vero porco, insomma, simbolo di carnalità lasciva, bestia immonda che grugnisce e tiene sempre il muso a terra, e non alza mai lo sguardo verso l’alto, verso ciò che è puro, teso al divino, come facciamo noi.
È un gioco forte di proiezioni, di cui gli animali sono spesso l’oggetto: ne facciamo simboli e proiettiamo su di loro ciò che rifiutiamo di noi; nel maiale appunto anche gli aspetti di una sessualità che giudichiamo immonda. Dalla ferita narcisistica (così la chiamava Freud) infertaci dalla consapevolezza darwiniana che i nostri avi sono scimmie, quando ci vantavamo invece di essere stati forgiati dal tocco divino, ci difendiamo puerilmente continuando a rifiutare le nostre parti oscure, le nostre ombre, che ributtiamo su altri. Ci crediamo giganti e siamo nani; e di tutto questo gli animali pagano l’inaccettabile prezzo.

La trasformazione del maiale in simbolo di lussuria è accanimento che potenzia la sua diffamazione e giustifica ulteriormente gli orrori di cui lo rendiamo vittima. L’atteggiamento del movimento #metoo contro le molestie sessuali, in tutto questo, lascia sconcertati: nel corso della settimana della moda di New York, in febbraio, la stilista francese Myriam Chalek, direttrice creativa di American Wardrobe, ha fatto sfilare modelle, alcune delle quali accessoriate con ali a riferimento di donne angelicate, ammanettate a uomini, i loro violentatori, il cui viso era coperto da maschere di maiale: queste rappresentazioni accompagnate da slogan del tipo #balancetonporc, #denunciailtuomaiale, #fanculomaiale, ripresi in questi giorni dal quotidiano tedesco, sono insulti non ai molestatori, non ai maiali, ma all’intelligenza di ognuno. Non c’è niente di nuovo sotto quel sole che splendeva già nel Medio Evo: in alcuni Musei della Tortura, che vanno prolificando in tutta Italia, è possibile vedere la Maschera d’Infamia: si tratta di una delle cosiddette Maschere di Derisione, che aveva la forma di testa di maiale oppure di asino, che doveva essere indossata dal condannato di turno per umiliarlo pubblicamente; era un supplizio psicologico usato per privare della dignità la vittima, aggiungendo il dileggio al supplizio vero e proprio, che veniva consumato sotto la maschera stessa. A fondo bisognerebbe riflettere sul fatto che il pubblico, lungi dal provare un qualunque moto di ribellione contro tale accanimento, infieriva ergendosi a fustigatore: secondo un meccanismo psicologico dalla valenza dirompente, considerare l’altro meritevole del castigo, impedisce pietà ed empatia.
Il fatto che oggi le donne, donne fiere, vittime rinforzate, sopravvissute indomabili, alla ricerca della propria dignità e della condanna di chi cerca di insidiarla, usino l’accostamento maiale–lussuria lascia basiti: conoscenze, o meglio ignoranze etologiche a parte, nessun movimento può condurre una battaglia per i propri diritti calpestando ferocemente quelli di altri, che sono sempre ancora un po’ più deboli: e il primo diritto è quello al rispetto. La strada per la consapevolezza è lunghissima, è evidente; nel percorso non è però tollerabile che i più torturati, dileggiati, oppressi tra gli animali debbano prendere su di sé il peso e la condanna di delitti altrui: perché l’ulteriore diffamazione di cui sono oggetto non farà che ricacciarli ancora un po’ più giù nella scala dei diritti, il cui fondo non sembra mai raggiunto. Il modello così proposto si allontana da quello rispettoso, ugualitario, pacifico per riproporre quello abusato di carnefice e vittima, in cui dietro l’obiettivo consapevole di porre riparo all’ingiustizia si intravede una per quanto inconscia accettazione dei rapporti di potere. Tutto questo non fa che confermare che nessuna visione della vita che non contenga al proprio interno gli altri animali non può che essere parziale e ingiusta nel momento stesso in cui si ferma ai confini illusori dell’umano. E con colpevole dimenticanza ignora il ruolo che le donne individualmente e politicamente hanno rivestito nella storia passata e recente nel farsi carico della questione animale, che hanno accostato a quella femminile, in nome della loro empatia, dei loro convincimenti, della loro capacità, anche, di “sentirsi tutt’uno col dolore degli altri”: lo diceva Rosa Luxembourg che non era Myriam Chalek, dallo strazio del carcere di Bratislava, che non era una passerella di moda di New York City.
Che dire? In questo mondo, scrive un bambino di Napoli sulle pagine di Nessun porco è signorina, gli animali credono che c’è solo l’inferno, perché vivono su questa Terra e non immaginano che c’è anche il paradiso. In paradiso gli parlerò e gli dirò “Scusate se vi abbiamo trattato male”. In attesa di un improbabile paradiso in cui chiedere scuse tardive, è dolce il pensiero di Giancarlo De Cataldo quando si chiede “Chissà se per tutti i piccoli porcellini il grugnito di mamma scrofa è come la voce dell’angelo, chissà come se l’immaginano i maialini, un angelo”. Di certo libero, di sognare, di portarli a correre là dove si gioca.

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15 Lug, 2018
Sicuramente in molti festeggeranno la vittoria di questo campionato che come sempre vede una squadra che vince e altre che perdono, ma gli animali trucidati non festeggiano: hanno sicuramente perso. Hanno perso il diritto alla vita, al rispetto e alla loro dignità. Ha perso chi li ha uccisi materialmente e chi ha ordinato lo sterminio. Ma anche chi ha condannato le morti ma non ha perso una partita in tv e chi in Russia non ha fatto opposizione, come, tra le altre cose, sottolinea Annamaria Manzoni nel suo articolo.

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.
Finalmente i mondiali di calcio hanno preso avvio: la soddisfazione non è dovuta a incontenibile impazienza da calcio di inizio, ma alla speranza che questo inizio possa segnare la fine dell’ennesima strage di migliaia di cani randagi, messa in atto per ripulire le strade russe, da offrire in tutto il loro lindore agli acclamati eroi del pallone e dei loro fans, tifosi magari virili come si conviene allo sport che li calamita, ma pur sempre amanti dell’ordine e della pulizia. Insomma un sospiro di sollievo a strage conclusa, tipo quello che, quando arriva Pasqua, sottolinea che non si uccidono più agnelli, perché sono morti tutti, o, alla fine del periodo natalizio, ci consola perché a quel punto la gente, abbuffata e satolla, magari per un po’ si asterrà dal mangiare altri animali.
L’attuale massacro russo è la riproposizione di un copione più volte visto anche in anni recentissimi: a Kiev, Ukraina, nel 2012, in occasione degli europei di calcio; a Sochi, Russia, nel 2014 dove si svolgevano le Olimpiadi invernali; in Marocco, pochi mesi fa, in attesa dell’arrivo di una delegazione Fifa che valutasse la candidatura del paese ad ospitare i Mondiali 2026. Quello che si ripete con regolare precisione è che, in occasione di eventi calcistici di particolare risonanza, in alcuni paesi migliaia di cani, che normalmente vivono nelle strade in vario modo integrati nel tessuto urbano, o in alcuni casi senza che nessuno si preoccupi di idonei interventi di sterilizzazione, divengono improvvisamente elementi di disturbo, dissonanti rispetto ad una presunta immagine di civiltà, presenze moleste e sgradevoli da eliminare. Sui modi per farlo c’è grande tolleranza e scarsa pubblicità: ci sono i bocconi avvelenati e le armi da fuoco, ma nel passato è giunta notizia persino di cerbottane e picconate, inferte con perizia da squadroni della morte, composti da volenterosi esecutori di ordini evidentemente non così sgraditi, resi per altro più appetibili da un riconoscimento in denaro per ogni “carcassa” presentata. Le autorità sembrano poco preoccupate da una possibile propaganda negativa, forti del fatto che ogni volta anche la peggior grana è sfumata in denunce via via sempre più flebili delle organizzazioni animaliste internazionali, in questa ultima occasione poco più che silenti, e in rimozione totale della carneficina al primo fischio di inizio che fa della vasca dello stadio fonte di obnubilamento di ogni malessere dell’animo, tanto efficace e popolare da fare impallidire al confronto una fumeria dell’oppio della Cina ottocentesca.
Se è vero che il mondo occidentale non può vantare innocenza alcuna dati i massacri quotidiani nei mattatoi e le tante altre ignominie perpetrate contro i nonumani, queste stragi di cani inducono ad alcune considerazioni specifiche della realtà in cui hanno luogo: colpisce per esempio il silenzio, che finisce per assumere valenza di assenso, del mondo del calcio, tifosi non esclusi, tutti rigorosamente compatti nel separare il proprio ruolo da qualunque coinvolgimento nelle vicende in atto, che sembrano non riguardarli nonostante siano le manifestazioni in programma a dare il via alla “pulizia di specie”. Sono in funzione mastodontici meccanismi di negazione, che proteggono da fastidiosi sensi di colpa: meccanismi esiziali, forieri delle peggiori conseguenze. La realtà viene rimossa o negata grazie a quella abitudine a chiudere gli occhi, a girare la testa dall’altra parte o a metterla sotto la sabbia, a fare lo struzzo, come ci suggeriscono le metafore non a caso così comuni nel nostro linguaggio, comuni come lo sono i comportamenti a cui si riferiscono: si finge di non vedere nonostante l’accesso alla realtà sia a portata di mano, di occhi, di orecchie e di cuore, per sentirsi innocenti di un male di cui è scomodo prendere atto. Di esempi della diffusione di queste forme di autoassoluzione perché il fatto non sussiste sono piene la storia e la cronaca, tanto che sono stati in molti a stigmatizzarle: scomodiamo Martin Luther King che diceva che non è grave il clamore chiassoso dei violenti, ma il silenzio spaventoso delle persone oneste. E lasciamoci raggiungere dalle parole di Albert Einstein che ci ricordano che il mondo è quel disastro che è non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti (giusti?!?) che se ne accorgono e stanno lì a guardare. E da quelle di Antonio Gramsci che sono invettive contro gli indifferenti di ogni genere: perché l’indifferenza è “la materia bruta che strozza l’intelligenza”.
Nel ripetersi di queste stragi, nella reiterata domanda del ”Ma io cosa ci posso fare?”, dell’imperativo morale ad agire, che dovrebbe emergere davanti a qualsiasi ingiustizia, non si è vista traccia. Dato per scontato che non ci si possano aspettare sollevazioni popolari, a volte basterebbe però una minoranza capace di rivolta per cambiare il corso della storia, anche di una piccola storia di cani russi. Se qualcuno nel mondo del calcio avesse alzato la propria autorevole voce per condannare il massacro in atto, minacciando per esempio di disertare i campionati nel caso un altro cane ancora fosse stato ucciso, molte cose avrebbero potuto cambiare, non esclusa una reazione a catena in direzione contraria al silenzio. In tanti studi condotti sui gruppi, emerge sempre che anche un solo dissenziente è in grado di far crollare il tasso di conformismo. Il dissidente nella Russia dei Mondiali 2018 non c’è stato. Peccato: una grossa occasione persa: ogni cane sottratto alla crudeltà di una morte ingiusta avrebbe per sempre portato con sè la propria gratitudine, come sempre fanno i cani, così pronti a non recare rancore, nonostante tutto, alla specie umana. Una grossa occasione persa perché il nostro tempo non ha tanto bisogno di eroi da osannare perché centrano una rete, quanto ne ha di uomini comuni, di quelli che compiono la banalità del bene semplicemente oltrepassando la frontiera che separa la passività dall’azione.
Ancora: quest’ultima guerra unilateralmente dichiarata contro i cani, come quelle analoghe che l’hanno preceduta, è scoppiata su un terreno fertile, reso idoneo non tanto con la produzione di armi, in questo caso primitive, dal momento che i diligenti esecutori degli ordini se la cavano benissimo anche con sassi e bastoni, ma soprattutto con il coltivare e sostenere l’idea che questi animali sono esseri senza diritti, e in quanto tali assoggettabili all’arbitrio umano, quale che sia il modo in cui si manifesta. La trasformazione di chi è senza diritti nel nemico di turno è fin troppo facile: basta completare il disprezzo con la paura. Non è certo un caso che stragi di cani, di queste dimensioni e alla luce del sole, non possano avere luogo in alcuni paesi del mondo occidentale (scandalose eccezioni sono rappresentate per esempio dalla Spagna, ma non solo) dove il randagismo non è tanto dilagante, ma soprattutto dove la considerazione dei cani nel corso del tempo si è organizzata sul riconoscimento di una serie di diritti e quindi su almeno embrionali forme di rispetto. Non è considerazione di poco conto: implica la consapevolezza che è la narrazione che facciamo dell’altro, la cornice cognitiva in cui inseriamo la sua esistenza, a determinare il nostro comportamento nei suoi confronti; implica che, in mancanza del riconoscimento del suo valore, il confine tra la tolleranza e il più spregiudicato accanimento sia valicabile con una facilità estrema. Chi è senza diritti viene regolarmente disprezzato e facilmente il disprezzo confina con l’idea della sua pericolosità: in questo modo si costruisce il rifiuto e poi la violenza nei suoi confronti nei pensieri ancora prima che nelle azioni. Su queste basi è facile poi sostenere e giustificare forme di crudeltà appellandosi alla necessità della sicurezza, dell’ordine, della pulizia, che sarebbero messe a rischio dalla loro presenza.
La dinamica non è certo nuova, è codificata e possiede anche un nome che la identifica: si tratta dell’attribuzione di colpa alla vittima: sono loro, sono i cani i colpevoli. Un meccanismo analogo da noi si è ripetutamente scatenato con la caccia all’untore, identificato in altri senza diritti, nelle mucche colpevoli del dilagare, vero o presunto, della mucca, resa pazza dalla nostra stessa follia, o nei volatili, che, potenziali diffusori di influenza aviaria, visto le condizioni in cui li costringiamo, periodicamente e nell’indifferenza generale vengono gasati a centinaia di migliaia: al primo allarme, di cui neppure è necessario verificare l’attendibilità, la carneficina diventa doverosa, risposta considerata etica dagli umani che fronteggiano coraggiosamente l’emergenza: la narrazione parla della vittima come del colpevole da distruggere perché pericoloso e quindi indegno di pietà, e del carnefice come autore di un intervento meritorio e degna di plauso. Periodicamente anche alcune razze canine, pitt bull e affini, subiscono sorte analoga sulla scorta dell’improvviso tam tam sulla loro pericolosità, con la differenza che la caccia al killer, data l’appartenenza alla specie canina, non assume i contorni legali delle altre, ma resta appannaggio di singoli, entusiasti di poter riversare una aggressività che li definisce come individui, in una causa al momento popolare: giustizieri del giorno e della notte, almeno per un po’; altre volte di solerti amministratori locali, costretti poi a giustificazioni penose.
Le testimonianze del massacro appena concluso in Russia sono gallerie degli orrori, le cui descrizioni ci travolgono, inutile negarlo, anche perché a danno dei cani, che amiamo, perché di loro conosciamo l’intensa vita emotiva e sentimentale, la capacità di gioire, la vulnerabilità alla paura, la tensione verso relazioni fatte di attaccamento, di propensione alla condivisione del tempo e dello spazio; insomma un universo che non finiamo mai di scoprire con ammirato stupore. Proprio la conoscenza che abbiamo di loro rende insopportabile saperli perseguitati, terrorizzati, uccisi, che siano cuccioli persi di paura, cagne incinte o sagome vaganti in cerca di compassione.
Indignarsi però resta sterile esercizio se non si individua una strada per porre fine per sempre al ripetersi di tanto orrore, strada che passa per la costruzione di una diversa considerazione degli animali, marcata sul riconoscimento dei loro diritti e sul rispetto loro dovuto: a distanza di tanti decenni da quando si è cominciato a parlarne con sempre maggiore frequenza, ne siamo lontani anni luce e la conseguenza è che, si tratti di cani, di mucche o di uccelli, i pogrom saranno sempre lì pronti a scoppiare di nuovo. Nella impaziente attesa che le cose si muovano a livello legislativo, è facoltà e sarebbe dovere di ognuno prendere posizione, schierarsi, sostituire all’inerzia l’attivismo con le parole e con i fatti. Ad uno stato delle cose inaccettabile nel corso della storia si sono opposte persone dalla statura immensa, rischiando la vita: i Perlasca, le Irina Sandler, i Schindler quando si ribellavano alle atrocità in corso, rischiavano la vita: noi tutto quello che mettiamo in gioco opponendoci è un po’ del nostro tempo.
Tempo da dedicare magari anche ad altri pensieri: la pulizia dalle strade russe dai randagi che ne deturpavano l’immagine, la loro colpevolizzazione del disordine in atto, il silenzio acquiescente di troppi richiama con intensità altre pulizie, di umani senza patria e senza dimora, per questo senza identità e senza diritti, contro cui i potenti e i prepotenti si accaniscono, convogliando aggressività che hanno ben altra origine e creando il capro espiatorio del momento. Tutti uniti, contro chi è debole: la storia tragica degli animali non è metafora delle altre ingiustizie contro gli umani, ma appartiene di diritto alla storia, quella in cui il diritto del più forte, sempre, la fa da padrone.
Il pensiero ora va a loro, a quelle migliaia di cani catturati, ammassati, massacrati, di cui forse possiamo immaginare i pensieri che hanno attraversato la mente in mezzo a quell’esplosione insensata di violenza, guardando negli occhi il nostro di cane, quando ci fissa in attesa dei nostri gesti da cui sempre fa dipendere felicità o delusione. Del tutto indifferenti di chi, tra l’entusiasmo generale, verrà proclamato il vincitore di un campionato, che tutti i partecipanti hanno già perso in materia di solidarietà, empatia e rispetto.

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