LEAL Lega Antivivisezionista presenta il suo Comitato Scientifico di cui fanno parte oltre alla dottoressa Valeria Roni, consulente, la dottoressa Susanna Penco e il suo team di biologi e ricercatori.
Il Comitato Scientifico di LEAL si prefigge di perseguire la buona scienza senza vivisezione e di colmare una lacuna di comunicazione che esiste tra i laboratori e la gente comune in un approccio divulgativo per spiegare obiettivi, risultati, aspettative e successi della loro ricerca.
In questo spazio ospiteremo i “diari dal laboratorio”: informazioni che creeranno il fondamentale contatto diretto tra antivivisezionisti, scettici e laboratori, per dimostrare che la sperimentazione senza animali è reale, lavora, ottiene risultati, ha traguardi ambiziosi e li raggiunge al di là della primaria ragione etica.
Lo scorso 26 gennaio 2016 ha avuto luogo, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, un convegno dal titolo “Metodi alternativi alla sperimentazione animale” presso l’Aula Organi Collegiali del Rettorato. La mia relazione, dal titolo “Limiti scientifici e tecnologici alla sperimentazione animale”, mi vide coinvolta non solo dal punto di vista professionale, in qualità di ricercatrice, ma anche come persona comune, in particolare malata di sclerosi multipla, dapprima illusa e poi delusa dalla ricerca.
Ho espresso, al proposito, alcune considerazioni (solo quelle che il tempo limitato consentiva). In primis è stato un piacere ringraziare il Dr. Silvio Borrello per aver conferito finalmente serietà e dignità al Tavolo Ministeriale sui Metodi alternativi che prevede incontri calendarizzati con esperti di Metodi Avanzati senza uso di animali. Infatti occorre mettere finalmente il pratica la terza “R”, la più importante per la salute umana, ossia il Replacement, con l’obiettivo di di andare oltre i limiti della ricerca tradizionale.
Quindi ho reso noto che la legge sull’obiezione di coscienza, risalente al 1993, ispirata dai numerosi studiosi di discipline scientifiche che non sono d’accordo, sia per motivi etici che per motivi scientifici, con l’uso di animali, è stata ed è ampiamente disattesa, ossia è rimasta “lettera morta”. Trovo che ciò sia una cosa molto grave, poiché lede l’individuo nella suo diritto di legittima scelta: non è democratico non poter decidere di ottemperare ad una legge codificata. Quindi le strutture dedicate alla ricerca, sia pubbliche che private, dovrebbero consentire a chi lo desidera di dedicarsi a studi senza l’uso di animali (sappiamo che ce ne sono molti, poiché la tecnologia per fortuna va avanti).
Successivamente ho richiamato l’attenzione sul decreto legislativo n.26 del 4 marzo 2014, ossia la direttiva attualmente recepita dall’Italia sulla protezione degli animali da laboratorio, mettendo in luce il fatto che, se si usano roditori per la ricerca, il motivo non è certo scientifico, bensì di natura etica. Infatti ogni progetto sottoposto al vaglio dell’OPBA (Organismo Preposto al Benessere Animale), reso obbligatorio dalla direttiva recita:
Dichiarazioni riferite all’articolo 13, comma 2 Sostituzione (Dichiarazione che la specie animale di cui si farà uso sono quelle a più basso sviluppo neurologico, nonché della mancanza di metodi alternativi, compatibili con l’obiettivo del progetto di ricerca). In pratica, i roditori si usano solo perché maneggevoli, piccoli, molto meno costosi delle scimmie, mansueti e poco simpatici alla gente. Il fatto che la stessa normativa preveda che devono essere utilizzati animali a basso sviluppo neurologico, cioè che “avvertono meno il dolore” (ammesso e non concesso che sia vero), contraddice l’obiettivo apparentemente filantropico della ricerca, cioè la tutela della salute umana, fornendo una giustificazione etica, tutt’altro che scientifica, agli esperimenti sugli animali. Molto spesso, inoltre, vengono chiesti ad OPBA dai ricercatori sia topi che ratti, per il semplice motivo che sono, a detta degli stessi ricercatori, molto diversi tra loro. Credo sia molto difficile affermare, allora, che gli studi effettuati su di loro possano esser traslati, ossia riferiti alla nostra specie! Se un topo e un ratto sono tra loro così diversi (e in verità lo sono, sia dal punto di vista comportamentale, che anatomico, fisiologico, ecc.) come posso io riconoscermi come obiettivo di studi fatti su animali così diversi da me? Non possiamo e non dobbiamo sentirci rappresentati da un topo! Come dice il prof. Hartung: “Non siamo topi di 70 kg!”.
Lo stesso Ministero afferma ciò, “Medicinali veterinari, il prezzo di mercato non dipende dal Ministero della salute” a proposito dell’elevato costo dei farmaci uso veterinario:
“Sul prezzo del medicinale veterinario, regolato dal mercato, incidono aspetti produttivi, commerciali e distributivi che rivestono un ruolo rilevante nella sua definizione. Occorre infatti che ogni principio attivo sia studiato sulla specie animale a cui è destinato, con indicazioni e posologie accuratamente sperimentate per ognuna di esse, tenuto conto dei diversi metabolismi e di conseguenza, della differente farmacodinamica e farmacocinetica”. È una verità assoluta!
Ci sono profonde differenze tra animali diversi (anche noi siamo biologicamente animali) e, dunque, metabolismi diversi. Per questo, la farmacologia e la tossicologia non possono più passare per l’animale (così inaffidabile), per lo studio di effetti sia terapeutici che collaterali per l’uomo, per il semplice dato di fatto che l’animale non è sufficientemente predittivo, e dunque i dati ricavati non sono trasferibili all’uomo. Secondo la FDA (Food and Drug Administration), ossia l’organismo di controllo sulla commercializzazione dei farmaci più prestigioso al mondo, almeno il 92% delle molecole che superano la sperimentazione animale non superano quella umana.
Inoltre, secondo l’associazione dei medici statunitensi e anche alcune statistiche europee, oltre il 50% dei farmaci vengono ritirati dal commercio perché hanno presentato reazione avverse che non si erano presentate negli animali da laboratorio. Il tragico caso francese (Rennes) conferma (semmai ce ne fosse stato bisogno) che ciò che è innocuo negli animali può assolutamente non esserlo per gli umani, e viceversa.
È inoltre assolutamente necessario far sapere ai media che la sperimentazione su animali, dai più conosciuta come “vivisezione”, (l’allegato VII della normativa purtroppo giustifica tale termine, in quanto esistono le deroghe ai divieti) non è mai stata validata: ossia nessuno si è mai preso l’onere di verificare se sia davvero efficace per la nostra specie: questo è un fatto gravissimo che mette a repentaglio la nostra salute. È giunto il momento di fare sapere alla gente la verità sulla nascita di un farmaco, ossia che la vera sperimentazione è la fase clinica, fatta su volontari umani sani pagati: è questa fase che andrebbe meglio regolamentata.
Quindi, da ricercatrice quale sono, ho mosso una critica al sistema di cui noi professionisti siamo vittime. L’obiettivo dei ricercatori è troppo spesso la pubblicazione dei lavori scientifici per ottenere fondi: è umanamente comprensibile, ma devia dall’obiettivo filantropico. È profondamente sbagliato basare la carriera dei ricercatori quasi esclusivamente sulle pubblicazioni: sono le norme che vanno cambiate!
La carriera si fa pubblicando, in base alle pubblicazioni si vincono i concorsi e si ottengono i fondi, cioè il denaro per realizzare i propri progetti. Ovvio che questo meccanismo perverso debba essere interrotto, poiché ingiusto ed assurdo per tutti, sia per i ricercatori che per i loro obiettivi (la salute di tutte le persone).
Mi sono quindi concentrata su un concetto che mi è molto caro: la possibilità di donare il corpo o parte di esso alla scienza per uso ricerca. Ad oggi non esistono normative in Italia, c’è un enorme e gravissimo vuoto legislativo. Donare i propri tessuti dopo la morte alla ricerca (nonché ovviamente per i trapianti) è un gesto di grande altruismo e sarà il solo modo per capire quali sono le cause delle malattie. Infatti, di moltissime malattie (dal diabete alla sclerosi multipla, dall’autismo alle depressioni, dalla schizofrenia alla SLA, a tutte le malattie autoimmuni, dalla malattia di Alzheimer a quella di Parkinson, a moltissimi tumori, ecc. ecc.) non si conoscono le cause! Quindi, purtroppo, esse non sono in alcun modo guaribili, tanto meno si può mettere in pratica la tanto agognata prevenzione! La causa della sclerosi multipla la si può ritrovare solo nel mio cervello ed in quello dei miei compagni di sventura, cioè degli altri malati. Non certo nei topi! Nemmeno nei cani! Nemmeno nelle scimmie (usate anch’esse in passato con risultati assolutamente fallimentari: è stato solo uno spreco enorme di risorse economiche, umane e di poveri animali uccisi per niente!). Credo che la donazione post mortem dei propri organi malati sarà il futuro della ricerca “illuminata”: è un dono nobilissimo, prezioso per i propri figli, nipoti , discendenti, insomma, per tutta l’umanità! È IL regalo per eccellenza, che possiamo fare ai nostri simili ed anche ai nostri amici animali, che frutterà ai ricercatori che vi si dedicheranno meritatissimi premi Nobel e che renderà in qualche modo immortale chi dona parte dei propri organi alla ricerca!
In conclusione, l’obiettivo dei ricercatori deve essere la Medicina Personalizzata. Ebbene, Medicina Personalizzata e Sperimentazione su Animali sono una contraddizione di termini e di fatto: la prima esclude la seconda e viceversa. Tra gli innumerevoli quesiti irrisolti, ne propongo solo tre:
- perché si continua a trascurare l’uomo per indagare l’animale?
- perché le risorse economiche non sono riservate ALMENO per il 50% a studi specie-specifici?
- perché anche laddove l’uso degli animali ha indubbiamente fallito (Alzheimer, autismo, Sclerosi Multipla, SLA, ecc.) non si impone legalmente la sospensione di questi studi, favorendo finalmente ricerche che diano i risultati sperati?
Ho concluso la mia relazione affermando ciò che credo: ormai la sperimentazione animale è una questione economica e politica più che scientifica.
Università di Genova
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