5 Gen, 2023
Annamaria Manzoni
Il video del maremmano che un paio di settimane fa, in Salento, per aver fatto irruzione in un pollaio, è stato legato al paraurti di un’auto e trascinato fino a incontrare un’orribile morte, ha fatto il giro del web. Ma è solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, fatta di maltrattamenti ma anche di caccia, vivisezione, avvelenamenti di massa, corse clandestine. “L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo – scrive Annamaria Manzoni -, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura. In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne… risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile…”
Ci risiamo: nei pressi di Santa Cesarea Terme (Le) un cane, un paio di settimane fa un maremmano reo – a quanto pare – di avere ucciso per fame due galline, è stato legato al paraurti di una macchina e trascinato fino a incontrare un’orribile morte. Autore dell’ignobile gesto il proprietario delle galline, un uomo anziano, che lo ha costretto a correre alla velocità dell’auto fino a quando non ce l’ha fatta più: a quel punto il cane si è lasciato andare ed è stato trainato sull’asfalto. Una guardia ambientale (Dania Carelli, che ha poi dato il nome di White al cane) li ha incrociati: con ammirevole determinazione ha costretto l’uomo a fermarsi e ha fatto intervenire le forze dell’ordine. Sta facendo il giro di molti giornali e siti on line la foto che vede il povero animale a terra, morto, ancora umiliato dal cappio al collo, e, sullo sfondo, (oscurato dai media main stream, ma non dai social) l’autore di tanta nefandezza, mano in tasca e sguardo altrove.
Episodio in drammatica fotocopia di quello che a Priolo Gargallo (Sr, maggio 2019) ha visto un altro cane fare identica fine ad opera di un altro sessantenne che ha poi gettato in un campo, a mo’ di spazzatura, quel che restava di lui mentre era ancora in vita: Matteo (questo il nome con cui ci si è poi riferiti alla povera bestia) è morto poco dopo, ridotto a carne smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato portato dai soccorritori, allertati da due coraggiosi ragazzi, che avevano avuto la prontezza di scattare foto che riprendevano anche il numero di targa dell’auto.
Lecito pensare che in entrambi i casi, in assenza di testimoni, il rinvenimento dei corpi martoriati dei cani non avrebbe indotto a nessuna indagine, perché collegato a fatti di consueta malvagità, come dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con segni di torture, ai quali solo in casi assolutamente eccezionali fa seguito al più un brevissimo trafiletto su qualche notiziario locale particolarmente sensibile. È auspicabile che l’indignazione sollevata da questo ennesimo episodio non si esaurisca in un orrore solubile in breve nell’indifferenza dell’abitudine, ma costringa a riflettere su quale possa essere il percorso di formazione di quella oscenità che porta degli uomini a infierire contro esseri incatenati e indifesi, insensibili alla sofferenza che urla sotto i loro stessi occhi, e anzi pervicacemente determinati a portarla a termine. Fino alla morte. Siamo di fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta di menti lucide; non delitti d’impeto, generati da emozioni che esondano e obnubilano i pensieri, ma massacri precisi e scrupolosi.
I cupissimi tempi che stiamo vivendo, fianco a fianco con l’imperversare di una guerra, feroce mezzo di risoluzione dei conflitti che ci eravamo illusi di potere archiviare nella barbarie del passato, sono un pozzo senza fondo di comportamenti simili: tra tutti l’ignominia delle camere di tortura è quella che più si attaglia alla dinamica che vediamo proposta e riproposta negli episodi di cui stiamo parlando. E che, lo sappiamo fin troppo bene, sono solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, che solo in casi ripresi edamplificati dai media raggiungono l’opinione pubblica: la cagnolina Pilù (Pescia, 2015), orrendamente torturata a morte per ritorsione contro la fidanzata da un tizio, che completa poi la sua opera con la pubblicazione on line del video con tutte le fasi dell’orrore; il gattino ucciso a bastonate dal bidello in una scuola elementare di Gioia Tauro perché reo di essere entrato abusivamente nel cortile; il cane Angelo massacrato per divertimento da tre balordi a Sangineto con il vanto successivo di un filmato sui social. Solo per citare i più famosi: per avere dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno, più che mai utili i “Rapporti sul maltrattamento Animale in Italia”, elenchi dei fatti di cronaca registrati dai media in due diversi anni, stilati dalla lega antivivisezionista LEAL: basti dire che gli episodi riferiti riempiono centinaia di pagine.
Sarebbe interessante se i processi (se e quando vengono celebrati nei tribunali: quindi quasi mai) andassero a scrutare nel profondo la personalità di tali individui, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della loro psiche; ma l’uccisione di un animale, ancorché ritenuto d’affezione e quindi più stimabile degli altri, non è considerata degna di un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psicologi e psichiatri non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un animale, neppure se sollecitata se non altro dalla preoccupazione indotta dai tanti studi che mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali umani e quella sui nonumani, che dovrebbe spingere a ben diverse reazioni. In assenza dell’auspicabile scandaglio del mondo psichico dei colpevoli condotto con i mezzi offerti dalle discipline deputate a farlo, sono comunque i fatti stessi a parlare: e dicono di personalità in cui la violenza è evidentemente il linguaggio conosciuto, la lingua madre imparata, la modalità di relazione e di reazione, il modo consueto per affermare il proprio potere e sancire la propria superiorità.
Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio genetico con i modelli appresi e con le vicende di tutta una vita, anche questi personaggi avranno pure una loro biografia su cui sono andati sistemandosi i tasselli della brutalità di cui sono portatori; andare a ricostruirli aiuterebbe a meglio conoscere (ed evitare) i percorsi che sollecitano l’espressione delle parti peggiori di noi. Parti che è lecito supporre che avranno già avuto modo di manifestarsi nella loro vita, perché le nostre mani così come la nostra mente non improvvisano ciò che non conoscono e ciò che non sono: lo vanno imparando su altri corpi, su altre vittime. Fino a divenirne esperti e cultori.
Ma c’è dell’altro: perché gli atti privati sono sempre inseriti in un contesto non solo familiare, ma anche di portata sociale, come testimoniano tante situazioni, su cui non si riflette mai abbastanza: già Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, grande concentrato delle mostruosità che la mente umana può ideare, aveva affidato a I sommersi e i salvati la scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche i peggiori criminali sono esseri umani tristemente ordinari, che il contesto è in grado di modellare. Non mostri, su cui ci piace tanto gettare la responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche, parte di noi che può restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni. Senza rendercene conto, ce ne vergogniamo tanto da accusare non noi stessi, ma qualcun altro con cui non abbiamo da condividere neppure l’appartenenza alla specie umana: non è un uomo, ma una bestia è allora il mantra salvifico a cui viene affidata la difesa della nostra innocenza come individui, ma anche quella della nostra specie. Quindi umano come sinonimo di nobile, bestia e animale come sinonimi di brutalità e indecenza. Meccanismo profondamente ingiusto dal momento che gli animali nonumani, che sono vittime, vengono trasformati implicitamente in colpevoli, in quanto sarebbero i contenitori di quel male che non riconosciamo in noi.
L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura.
In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile. Si comincia in altri termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla necessità di ridefinire le convinzioni diffuse che restano ancora intrise dei residui di quanto veniva serenamente sostenuto fino a pochi decenni fa, quando veniva dato diritto di cittadinanza al delitto d’onore: si sanciva , anche dal punto di vista giuridico, la convinzione che non i diritti delle donne, ma la tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere oggetto di attenzione e cura. Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie, nella motivazione di comportamenti di uomini ancora intrisi di convinzioni fortemente sessiste. Lo dice bene Francesca, figlia di Lia Rizzone Favacchio, uccisa dal marito nel lontano 1973, quando, richiesta di dire se nel corso di tanti anni abbia potuto trovare una motivazione al gesto omicida di suo padre, risponde solo ”Ha ucciso perché figlio di una cultura patriarcale”. Non altro che la convinzione del proprio potere, che arriva a esprimersi come diritto di vita e di morte, è il motore propulsivo di gesti altrimenti incomprensibili.
02 Gennaio 2023
FONTE: https://comune-info.net/dei-delitti-contro-gli-animali/?fbclid=IwAR3H7ak0SV6nI-p-SHk4qXv3-zL40vJi-mtTNZk1tiCTD1C07Dlxv_I8bmM
LEAL INCONDIZIONATAMENTE DALLA PARTE DEGLI ANIMALI
RAPPORTO MALTRATTAMENTO ANIMALE IN ITALIA
https://leal.it/2018/03/15/leal-patrocina-il-nuovo-rapporto-sul-maltrattamento-animale-in-italia-2017/
25 Nov, 2020
LE PRESSIONI MEDIATICHE CHE HANNO DENIGRATO LO SPOT FUORVIANTE E SPECISTA DI TELEFONO AZZURRO HANNO SORTITO UN EFFETTO: IL VIDEO È STATO RIMOSSO!
→ Leggi il comunicato di Telefono Azzurro
Noi di LEAL abbiamo firmato la petizione e ringraziamo Annamaria Manzoni che ha espresso con la consueta chiarezza il sentimento di indignazione che il contenuto di questo spot pubblicitario ha scatenato in tantissime persone.
Il 20 novembre, in concomitanza con il 31esimo anniversario della Convenzione ONU, è stata celebrata la Giornata Internazionale per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Telefono Azzurro, associazione in difesa dei bambini, che non necessita di presentazione, con l’occasione ha dato il via alla campagna #primaibambini. Quest’anno il momento è particolarmente drammatico, vista l’emergenza Covid-19, e i bambini, quali soggetti deboli, devono essere particolarmente tutelati, come è nelle corde dell’associazione che di loro si occupa.
Lo spot che ha scelto è presto descritto: la casa brucia, perfetta metafora degli eventi attuali e alla Nostra Casa in Fiamme, come la racconta Greta Thunberg; dall’interno arrivano lamenti e richieste d’aiuto, mentre tutto intorno la gente cerca disordinatamente di mettersi in salvo, qualcuno con un bimbo in braccio: chiaro il riferimento ai diffusi vissuti di panico che la paura di non farcela contro un pericolo non ben individuabile porta con sé.
Un uomo robusto (l’autorità forte che non ci abbandona al nostro destino), dopo un attimo di incertezza, si slancia su per le scale, incrociando chi fugge in direzione opposta alla sua e apre con una spallata la porta della stanza in fiamme dove, in fondo, due fratellini, un maschietto e una femminuccia, seduti per terra, l’uno accanto all’altra insieme al loro cane, appaiono terrorizzati. L’uomo si avvicina incurante delle fiamme che potrebbero avvolgerlo, li guarda per un attimo e, al di là di qualunque sensata aspettativa, afferra il cane e se ne va portando in salvo lui e lasciando i bambini al loro destino.
Insomma, dalla tragedia alla farsa: perché a questo punto non si può che restare basiti davanti al finale a sorpresa e riderci sopra come ad uno scherzo inaspettato.
Se si guarda ai tanti video in circolazione negli altri paesi per celebrare questa giornata, le immagini sono ben diverse: ci sono didascalie che riportano numeri sconvolgenti riferiti a infanzie rubate, maltrattate, violentate, a vittime di guerre, fame, esodi biblici. E ci sono i visi sorridenti di tanti bambini che guardano diritto negli occhi e, a fronte di tutto, continuano a chiedere il loro diritto al rispetto, all’educazione, alla salute, alla vita insomma, con un atteggiamento nonostante tutto fiducioso nella possibilità di farcela.
La scelta pubblicitaria di Telefono Azzurro, si sgolano a spiegare i responsabili, è frutto di una valutazione attenta ed oculata che ha visto incrociarsi e sommarsi la professionalità di Havas Milan, società leader nelle comunicazioni, e il punto di vista dell’associazione stessa. Non si tratta quindi di uno scivolone né cognitivo nè stilistico, ma è piuttosto l’espressione di convinzioni profonde, che ha partorito il finale a sorpresa, per altro assolutamente irrealistico, dal momento che mai si è avuta esperienza di qualcosa del genere: se nelle intenzioni avrebbe dovuto smuovere le coscienze, nei fatti risulta invece grottesco, degno tutt’al più del colpo di scena di un cartone animato.
Ciò che è ancor più grave è la scelta di un mood polemico, la presenza di una sorta di acredine e rabbia sorda, dentro le quali lo spot diventa l’occasione per mettere in scena quella che è evidentemente una visione radicata della questione animale, vista come appannaggio di qualche individuo di poco cervello e ancor meno cuore, che privilegia gli animali ai bambini: questione che evidentemente i vertici di Telefono Azzurro considerano antagonista alla tutela dell’infanzia.
Non si tratta solo e soltanto di un attacco ai diritti degli animali: si tratta di una pericolosissima ridicolizzazione di tutti i movimenti che di diritti animali si occupano. Si tratta di avere dato voce a quelle che sono evidentemente convinzioni profonde: è grave dover prendere atto che manchino argomenti nobili per parlare di diritti dell’infanzia tanto da arrivare a sostenerli solo attraverso una sorta di lotta fasulla tra poveri. È grave pensare che l’unica idea che al Telefono Azzurro si sono fatta di chi si occupa di nonumani sia quella di persone asociali, disturbate, il cui interesse per i nonumani è speculare al disinteresse per gli umani, in una rappresentazione addirittura imbarazzante dell’animalista di turno.
Né l’agenzia pubblicitaria né Telefono Azzurro sembrano avere la più pallida idea del significato più ampio e inclusivo del termine antispecismo; ma nemmeno del significato più ampio di parole quali rispetto, empatia, responsabilità, che non sono atteggiamenti da accendere o spegnere a seconda dell’interlocutore, ma sono modi di essere e di sentire che, quando esistono, si esprimono in ogni relazione.
Dopo averci così tanto riflettuto, devono avere pensato che sarebbe stato davvero un bel colpo nella giornata dell’infanzia tirare una bordata contro una causa che non solo non è nelle loro corde, ma che evidentemente mal sopportano, nella evidente incapacità di prendere atto della connessione che la rende parte inscindibile della stessa questione umana. Non sanno, a quanto pare, che c’è una parte di mondo che sta lottando per principi di rispetto e di empatia che siano inclusivi e credono invece di trovarsi di fronte ad una gara, dove bisogna sgomitare per il primo posto.
Non si sono neppure accorti della loro stessa incongruenza nel dare vita alla situazione in cui i due bambini si proteggono e si danno reciprocamente forza insieme al loro cagnolino: quelli che loro dicono di difendere sono i primi che nel momento del bisogno non dimenticano i loro affetti e se ne sentono responsabili; ma poi arrivano gli adulti e mandano un messaggio mefitico: bisogna scatenare la lotta: voi dovete essere i primi, attenti a quegli altri che sono anche loro in attesa di solidarietà, perché poi vi fregano. Che la gara cominci allora, senza esclusione di colpi.
Si insinua poi un inevitabile pensiero alla reiterata strumentalizzazione dei bambini quando si tratta di colpire i nonumani: la campagna di Telefono Azzurro che vede l’interesse degli animali confliggere con quello dei bambini ricorda drammaticamente la pubblicità dei vivisettori che, per cercare sostegno al loro operato, usano contrapporre la salvezza delle cavie a quella dei propri figli: tu chi preferisci salvare? Il dilemma si ripropone: il dito viene severamente puntato contro chiunque, rispettando gli animali, automaticamente condannerebbe a morte i bambini.
Dal punto di vista pubblicitario penso si sia di fronte ad un flop spaventoso: l’assurdità della trovata è tale da catalizzare tutta l’attenzione, a tutto svantaggio del tema della tutela dell’infanzia, che, per la sua drammaticità, davvero avrebbe meritato ben altro.
Dal punto di vista etico è anche peggio: sostituire la necessità di un atteggiamento solidaristico, collaborante, rispettoso con la creazione di un nemico da battere è quanto di meno pedagogico ed educativo si possa ideare. Se queste sono le basi su cui si fonda l’ideologia di chi dice di lavorare per la costruzione di un mondo nuovo, di pace, rispetto e collaborazione, la strada è davvero in salita.
Resta forte la fiducia nei bambini, i quali, al di là di messaggi tossici che il mondo adulto propone loro, non vedono negli altri animali nemici o pericolosi concorrenti, ma amici, con cui condividere le loro vite, in una intesa con gli altri che i loro difensori pare non si sognino nemmeno.
Fonte: → Annamaria Manzoni blog.
COMUNICATO DI TELEFONO AZZURRO
“Attraverso il video realizzato a titolo gratuito in occasione della Giornata Internazionale dell’Infanzia, Telefono Azzurro voleva attirare l’attenzione sul tema dei bambini, troppo trascurati in questa emergenza sanitaria. Non intendevamo creare alcuna contrapposizione tra i bambini e le categorie vulnerabili: sarà nostro impegno rimuovere il video, poiché abbiamo compreso che il coinvolgimento del cane ha turbato la sensibilità di molti e di questo ci scusiamo. Purtroppo non siamo riusciti a trasmettere il messaggio che abbiamo a cuore, quello di portare l’attenzione sul tema della sicurezza dei bambini e della tutela dei diritti dell’infanzia in questa emergenza sanitaria. La nostra speranza è che l’attenzione di tutti possa ritornare sul tema per noi più importante, sulla nostra sola missione da più di 30 anni: la salvaguardia dei bambini.
Perché su di loro l’attuale emergenza sanitaria ha impattato violentemente e ancora lo sta facendo”.
13 Lug, 2020
Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.
Le nutrie, dal 23 luglio 2014, non sono più specie protetta, come lo erano state fino al giorno prima, ma, potenza del linguaggio e della legge, sono diventate specie nociva; in quanto tale, possono essere “eradicate”, soggette a “prelievo venatorio”: in altri termini giustiziate sul posto da solerti cacciatori, o, in alternativa, catturate con uso di gabbie e, una volta lì dentro, colpite a fucilate o “gasate”.

Non molte persone sanno un gran che delle nutrie; o meglio non molti connettono questo nome con quello ben più familiare di castorino, familiare perché fino a non molti anni fa era quello delle pelliccette che molte donne portavano, potendosele permettere perché non eccessivamente costose e perché l’idea che provenissero da un animale, imprigionato per tutta la vita prima di essere ucciso in modi crudelissimi, restava nascosta nei meandri della rimozione. E se poi da lì fuoriusciva, i tempi erano tali per cui si riusciva a convivere con la palese ingiustizia senza particolari sensi di colpa: animalismo e antispecismo, con tutto il loro carico di nuove consapevolezze e di conseguenti responsabilità, erano tutti ancora da venire. Mentre le mode dettavano i comportamenti e incidevano sulle scelte, i castorini, insieme a tanti altri, ne pagavano il prezzo, senza che ci si curasse di sapere nulla di loro, di sapere per esempio che erano stati fatti venire da lontano, dal Sud America, perché, vegetariani quali sono, si nutrono di arbusti e servivano quindi anche allo scopo secondario di bonificare le paludi. Quando nuovi gusti li hanno messi all’angolo e fatti giudicare di troppo, sono stati serenamente liberati sul territorio vicino a corsi d’acqua con il nuovo nome di nutrie e hanno cominciato a riprodursi nel disinteresse generale, fino a quando vari disastri ecologici e danni ambientali, frutto di negligenze e cattive politiche del tutto umane, hanno visto in loro l’ideale capro espiatorio dei mali in corso. Tutta colpa della nutria! Dagli all’untore! Sterminiamole tutte! E così, non facciamoci mancare nulla, si è deciso di procedere alla loro uccisione a fucilate; ghiotta occasione per un po’ di sport supplementare per i cacciatori, che in molti casi si sono visti omaggiare cartucce per decine di migliaia di euro, e grande sgomitare da parte dei sindaci per vedere il proprio comune accolto tra gli eletti con licenza di uccidere.
L’ecatombe è ormai in atto da anni sul territorio nazionale, con centinaia di migliaia, forse milioni, di individui uccisi: secondo le prime cronache, poi tacitate, tra questi ci sono anche quelli che, sfuggiti alla furia dei fucili, sono stati abbattuti a badilate, senza scandalo.
Il tutto è stato reso possibile grazie all’efficacia dello schema regolarmente seguito in occasione di ogni carneficina, umana o nonumana che sia: è essenziale, come prima mossa, costruire le condizioni di base, vale a dire la propaganda secondo cui ci si trova davanti ad una seria minaccia, fonte di un male inaccettabile. Ce lo hanno bene insegnato i conflitti di ogni epoca, dall’antichità ai giorni nostri, che vedono l’odio artatamente sollevato da una propaganda che ne costituisce l’imprescindibile punto di partenza. Anche per bruciare le streghe, gentile pratica protrattasi per secoli nella illuminata Europa, era stato necessario convincere la gente di quali malefici fossero responsabili quelle donne, creature di Satana capaci di ogni malvagità. Così la nutria, nella narrazione, è diventata pericolosa, perché “nociva”, e, in quanto tale, meritevole di morte. Narrazione in rotta di collisione con la posizione nel frattempo assunta dall’animale, le cui reali caratteristiche di docilità, simpatia, socialità ne avevano fatto il beniamino di molti. Si è dovuto quindi lavorare sulla sua rappresentazione quale essere pericoloso, dannoso, da perseguitare: operazione il cui successo è stato reso possibile dalla diffusa deresponsabilizzazione e dall’altrettanto diffuso ossequio all’autorità, dinamiche tanto comuni tra gli umani, che non amano sentirsi in colpa e nemmeno essere angustiati da pensieri molesti: sono altri i responsabili di quello che succede e comunque per fortuna che c’è la rimozione, che ci permette di non pensarci.
Il consenso alla sua eliminazione è stato così assicurato e gli esecutori eretti al rango di meritevoli operatori al servizio del benessere comune.
Niente di originale se si pensa ad una situazione per certi versi del tutto analoga dall’altra pare del mondo: in Australia (è la sociologa Nik Taylor a raccontarlo) i rospi, ritenuti una sorta di peste ecologica a causa del loro proliferare, tempo fa sono diventati oggetto di una campagna che invita la popolazione ad ucciderli “nel modo più umano possibile”, ma i “modi umani”, ahimè per i rospi, non sono alla portata di tutti, e quindi il governo ha corretto il tiro accontentandosi per la mattanza di metodi “facilmente acquisibili ed accettabili”. Di adattamento in adattamento, il risultato è che molti ragazzi li attaccano con le loro mazze, usandoli come sostituto della palla da cricket o da golf, a mo’ di allenamento per lo “swing” (vale a dire per far alzare la palla verso l’obiettivo) sentendosene autorizzati dalla stessa rappresentazione degli animaletti come dannosi e nocivi, il che crea consenso intorno al loro pur orrido agire, che non viene stigmatizzato in quanto, al netto di noiosissime considerazioni etiche, è considerato un atto socialmente utile.
Persino superfluo disquisire sull’ottica squisitamente antropocentrica che è il denominatore comune di queste situazioni: degli animali nonumani si fa ciò che è utile, ma anche solo preferibile, per gli umani, che hanno su di loro incontrastato diritto di vita e di morte, sulla base di considerazioni di pura convenienza.
Un altro elemento è di grande rilevanza: e le analisi di Andrèe Girard sono al proposito illuminanti: nel corso della storia è sempre esistito il capro espiatorio, vittima su cui far confluire l’aggressività dilagante, vittima scelta in virtù della sua debolezza, mancanza di tutele, incapacità a vendicarsi. Chi più e meglio degli animali può assumere su di sé questo ruolo e quindi la responsabilità degli errori e delle nefandezze umane, espiare le colpe dei colpevoli al posto loro, attirare su di sé l’aggressività che viene così distolta dal consesso umano? E tra gli animali sono quelli più gentili le vittime ideali: dopo la loro mattanza, scaricata la propria aggressività, gli uomini, sempre tanto animosi gli uni contro gli altri, godono di qualche sprazzo di tranquillità, per una volta in solidale compiaciuta compagnia dei propri conspecifici.
Ancora: per contrastare il numero delle nutrie
giudicato eccessivo, sarebbero possibili interventi di contraccezione, come dimostrano le iniziative della Regione Piemonte, oppure organizzare spostamenti di massa. Decidere di non mettere a punto altre soluzioni quindi induce ad interrogarsi sui motivi, sulle spinte di base, che l’hanno determinata: e la risposta non può non fare riferimento a posizioni riferite alla violenza, alla sua accettazione e spesso gradimento nell’esercitarla contro le centinaia di migliaia di “esemplari” uccisi a sangue freddo. Lecito interrogarsi su chi siano quegli individui pronti ad ammazzare a catena di montaggio animali indifesi, terrorizzati, che sbatteranno contro le pareti delle loro gabbiette in cerca di una impossibile via di fuga. Lecito interrogarsi sui “dilettanti”, vale a dire quei “volontari” a cui alcune regioni hanno fatto riferimento, che evidentemente sono lieti di accorrere a compiere il lavoro che non considerano affatto sporco; e sui professionisti, che sono i cacciatori, che nei loro siti non mancano di esprimere entusiasmo per il nuovo spazio offerto alla loro brama di uccidere, fonte di dirompente eccitazione. Nessuno di loro pare sentire nelle proprie corde l’eco di quella empatia per l’altro, per il suo dolore, che è la base di rapporti non violenti e cemento per relazioni che non siano di prevaricazione. Quale annichilimento della solidarietà e del senso di giustizia alimenti il senso di onnipotenza che ogni volta accompagna l’uccisione di qualsiasi essere vivente e senziente dovrebbe essere oggetto di preoccupazione per le autorità, che invece, con le loro scelte, lo legittimano e lo incentivano.
Un’ultima osservazione: tutto ha luogo in territori pubblici, e può succedere che ci siano anche bambini e ragazzini tra gli involontari spettatori. Essendo ormai del tutto assodato che la violenza sugli animali è connessa con un link innegabile a quella contro gli esseri umani e che tante radici del futuro agire sono poste negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, rendere i più giovani testimoni di mattanze che, alla faccia di qualsiasi eufemismo ideato per misconoscerle, sono innegabilmente tali, carica di responsabilità le autorità: anche se non lo capiscono.
Le nutrie italiane e i rospi australiani, di certo come tante altre specie democraticamente sparse in tutti i posti del mondo, nulla sanno di tutto ciò e, mentre vengono imprigionate, ferite, uccise, avranno magari il tempo di chiedersene la ragione, ma non certamente la possibilità di trovarla tra quelle accettabili: perché lì non c’è.
“Sono contro la debolezza umana e a favore della forza che le povere bestie ci dimostrano tutti i giorni perdonandoci” diceva Anna Maria Ortese: dell’insensatezza di quel perdono immagino anche le nutrie abbiano preso atto.

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3 Giu, 2020
Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.
Priolo Gargallo, provincia di Siracusa, è la località dove si è consumato l’ennesimo episodio di ordinaria ferocia: un sessantenne ha legato con una catena al parafango posteriore della sua autovettura un cane e lo ha trascinato per kilometri, per poi fermarsi e gettare quel che restava di lui in un campo, a mo’ di spazzatura, mentre era ancora in vita: Matteo (questo il nome con cui ci si riferisce alla povera bestia) è morto poco dopo, ridotto a carne smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato portato dai soccorritori.
La reazione di rabbia impotente davanti a tale scempio è acuita dalla certezza che, se due coraggiosi ragazzi non fossero stati testimoni della scena e non avessero avuto la prontezza di scattare foto che riprendevano anche il numero di targa dell’auto, il ritrovamento dei resti sarebbe stato giudicato immeritevole di ulteriore indagine, perché fatto di consueta malvagità, come dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con segni di torture, ai quali solo nel migliore dei casi fa seguito un trafiletto su qualche notiziario locale.
Alcuni particolari devono ancora essere accertati, ma quello che è già stato documentato basta a generare, oltre all’orrore, alcune riflessioni. Poco importa se Matteo fosse il cane di nessuno, randagio come tanti; o invece, come raccontano, “appartenesse” al suo aguzzino che lo teneva legato in campagna, portandogli da mangiare e da bere quando capitava. Quale che sia la realtà, non cambia l’oscenità di un uomo che infierisce contro un essere incatenato e indifeso, indifferente alla sofferenza che urla sotto i suoi stessi occhi. Se anche non esiste motivazione al mondo che possa giustificare tanta protervia, l’assenza di qualsiasi “ragione” appare particolarmente drammatica: siamo di fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta di una mente lucida; non uno di quei delitti d’impeto, generati da emozioni che, esondando, obnubilano i pensieri, ma massacro programmato e preciso.
Sarebbe interessante se il processo, che ci si augura venga celebrato, e presto, andasse a scrutare nel profondo la personalità di un tale uomo, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della sua psiche; ma non succederà di certo, perché l’uccisione di un cane non è ritenuta degna di un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psichiatri non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un animale. Con buona pace di tutti gli studi che mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali umani e quelli non umani. Il che significa che, anche in presenza di un colpevole disinteresse per le sofferenze di un cane, almeno la preoccupazione per gli umani dovrebbe spingere a ben diverse reazioni.
Sono comunque i fatti ad offrire una chiave di lettura, pur prescindendo dal meticoloso scandaglio dell’inconscio del colpevole: e i fatti parlano di una personalità in cui la violenza è evidentemente la modalità di relazione, il modo conosciuto per alimentare un ego bisognoso di autorassicurazioni sul proprio valore a fronte della sua stessa pochezza: valore che viene misurato sulla possibilità di ferire, tormentare, uccidere, perché questo è il modo miserando di affermare la propria superiorità. Una pochezza vile, dal momento che la vittima non è forte e pericolosa, ma debole e indifesa e il luogo quanto più isolato possibile, per vedersi garantita l’impunità. Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio genetico con le vicende di tutta una vita, anche il sig. Antonio R. avrà pure una sua biografia su cui sono andati sistemandosi i tasselli della sua sadica viltà; conoscerli sarebbe utile per sapere cosa è necessario per sollecitare le parti peggiori di noi. Parti che, considerando la diligente precisione con cui ha portato a termine l’impresa, è lecito supporre che avranno già avuto modo di esprimersi nella vita del suddetto Antonio, perché le nostre mani così come la nostra mente non improvvisano ciò che non sanno e ciò che non sono: lo imparano, su altri corpi, su altre vittime.
Ma c’è dell’altro: perché gli atti privati sono sempre inseriti in un contesto e possiedono anche una portata sociale, come testimoniano tante situazioni, su cui forse non si riflette abbastanza: è da mezzo secolo che lo psicologo Philippe Zimbardo approfondisce gli studi che provengono da un famosissimo esperimento (“L’effetto Lucifero”; Stanford University, anni ’70), che dimostrò con evidenza come il contesto (in quel caso costruito ad hoc in una prigione) sia in grado di trasformare in brevissimo tempo le persone rendendole capaci di un male che non avrebbero mai previsto di poter compiere. E Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, concentrato delle mostruosità che la mente umana può ideare, ha affidato alla pubblicazione de “I sommersi e i salvati” la scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche i peggiori criminali sono esseri umani tristemente ordinari, trasformati dalle circostanze: non mostri, vale a dire non quegli extraterrestri, su cui ci piace tanto gettare la responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche, parte di noi che può restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni. Ce ne vergogniamo e accusiamo qualcuno con cui non abbiamo niente da condividere, neppure l’appartenenza alla specie umana.
E altre ricerche che ci dicono che anche delitti che riteniamo individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo, come la violenza sessuale, in realtà risentono di altre variabili che, sommandosi l’una all’altra, vanno a costituirne il brodo di cultura: variabili tra cui è davvero interessante scoprire che possono trovarsi, per esempio, attività lecite quali la caccia, insieme alla diffusione di media violenti e al numero di esecuzioni capitali (la ricerca è svolta negli Stati Uniti, dove , come è risaputo, è contemplata la pena di morte). In fondo la lezione un po’ siamo stati capaci di impararla: è da qualche anno che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva ogni volta dibattiti e discussioni sulla necessità di contrastare la convinzione ancora diffusa, per quanto negata o misconosciuta, che vede nelle donne esseri su cui esercitare diritti autoconferiti.
Si comincia in altri termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla necessità di ridefinire la cultura dominante che resta ancora intrisa dei residui delle convinzioni esplicitamente espresse fino a pochi decenni fa, che, con il riconoscimento di cittadinanza al delitto d’onore, sancivano anche dal punto di vista giuridico la convinzione che non i diritti delle donne, ma la tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere la vera preoccupazione. Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie, nella motivazione di tanti comportamenti maschili.
Riflessioni di questo genere sono tutt’altro che estranee alla vicenda dell’aguzzino del cane Matteo: anzi, in questo caso il link è molto più diretto e comprensibile e coinvolge altri cani e altri aguzzini. A partire dal fatto che il piccolo paese in cui è stata portata a termine la tortura solo poche settimane prima era stato teatro, ad opera di responsabili rimasti ignoti, di sevizie a danno di un altro cagnolino inerme, prima torturato e poi impiccato. Pura coincidenza? Se si allarga lo sguardo, la visuale ingloba un territorio più vasto, che vede la Sicilia spesso in una posizione tutt’altro che lusinghiera in tema di tutela animale: nelle sue strade ospiterebbe (il condizionale è d’obbligo in assenza di censimenti) la bellezza di 100.000 randagi, triste primato europeo; mancano per loro adeguate strutture di accoglienza; le periferie delle città si trasformano spesso in discariche di cucciolate indesiderate e i canili fungono da depositi di cani dismessi. A parte la squalifica morale, questa situazione comporta uno stato di cose drammatico: gli animali a causa del loro stesso numero strabordante sono spesso considerati e trattati come pericolosi, quindi scacciati, presi a sassate o bastonate. Spaventati e in cerca di cibo, può succedere a qualcuno di loro di rendersi responsabile di un’aggressione a danno di una persona: e allora la reazione che era lì pronta ad esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi, perché, se la vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo vergognare, ma posso anzi inorgoglirmi spacciandomi per difensore della collettività.
È all’interno di queste dinamiche che periodicamente si registrano avvelenamenti di massa, qualcuno incapace per la prepotenza dei numeri di sottrarsi ai riflettori dei media, come fu il caso delle decine di cani uccisi a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma ci sono cronache ancora più spaventevoli che parlano di animali inermi che neppure tentano di sottrarsi all’infierire su di loro di umani furiosi, fino alla morte: la pur coraggiosissima abnegazione di tanti volontari non ce la fa a contrastare tutto questo. È necessario riflettere su come questo genere di situazioni rappresenti il brodo di cultura di comportamenti desensibilizzati: se la quotidianità è marcata dall’indifferenza verso animali in evidente difficoltà e stato di bisogno, se la cultura intorno, a partire dalle istituzioni, lungi dallo stigmatizzare, autorizza abbandoni, maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta di normalità: sono di fatto rapporti di forza, prepotenza, violenza che, essendo tanto diffusi e non perseguiti, vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili.
È ovviamente una dinamica che coinvolge solo parte della popolazione, a fronte dei molti che condannano, e ai cittadini (e soprattutto cittadine!) sensibili, di grandissima determinazione che lottano strenuamente contro questo stato di cose, pagando prezzi elevatissimi in termini di sofferenza psichica, e non solo. Ma, in una società civile, la strada non può essere quella di contare solo sull’eventuale appello all’empatia personale per contrastare un assetto che, nei fatti anche se non nella teorizzazione, sopporta e giustifica il male fatto a molti. E il male fatto agli animali è un problema enorme: la Sicilia, oggi sotto accusa per i fatti di Priolo, non ne detiene certo l’esclusiva, che anzi, a macchia di leopardo, investe tutte le parti d’Italia, ognuna con la propria specificità e con altre regioni (in primis Calabria, Sardegna, Puglia, Campania e non solo), dove il problema è enorme; ma è innegabile che la vastità del fenomeno la mette spesso sul banco degli imputati.
È in questa ottica che urge approvare leggi che sanzionino in modo adeguato i maltrattamenti a danno degli animali: finché le pene resteranno blande, torturare un animale sarà interiorizzato se non come lecito, comunque tollerabile, da derubricare nel nostro codice morale a crimine bagatellaro, perché di fatto tale è considerato nelle leggi: leggi indispensabili per stabilire delle norme che diventino col tempo anche morali. Contestualmente alla punizione, è basilare occuparsi della prevenzione, che ha inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire dalle fasce più giovani, al rispetto per le altre forme senzienti, dalla costruzione progressiva di una cultura in cui qualunque tipo di efferatezza nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la diffusa assenza di sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda ad un allarme sociale, in cui la sensibilizzazione verso tutte le vite senzienti sia prioritaria in ogni progetto educativo.
Discorso non facile, certo, soprattutto in una terra in cui i diritti umani sono spesso calpestati dalle organizzazioni criminali; ma non si può cedere alla tentazione del benaltrismo, che, nell’affermazione che c’è ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi, finisce per trovare giustificazione all’immobilismo: se le violenze, le ingiustizie, le crudeltà, contro chiunque espresse, sono considerate inevitabili o normali, il risultato non può che essere l’assuefazione, matrice di passività e indifferenza; la reazione è doverosa e non può limitarsi a rabbia, stigmatizzazione, furore reattivo.
Il cane Matteo giustizia non l’avrà mai: non esiste giustizia per lui, morto di una morte atroce senza nemmeno capire il perché, come succede ad ogni diseredato sulla faccia della terra, che strappa ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita è l’unica cosa che possiede, per quanto umiliata e offesa. Il monumento in Park Lane, a Londra, dedicato ai milioni di animali coinvolti nella follia tutta umana della prima guerra mondiale, i monumenti a Roma e nei pressi di Catanzaro al cane Angelo randagio di Calabria torturato fino a morire da quattro ragazzotti sfaccendati, sono omaggi tutt’oggi rarissimi alle vittime animali della nostra violenza: non restituiscono loro neppure un alito di vita: sono però un monito a guardare dentro di noi per prendere atto dell’abisso di crudeltà di cui siamo capaci, e che nei confronti dei più miserabili, che sono più di tutti gli altri i nonumani, esprime il peggio di sé. Il recente sfregio alla statua di Angelo, a Roma, ci avverte che non è proprio il caso di peccare di ottimismo.

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27 Set, 2019
ANCHE LEAL LEGA ANTIVIVISEZIONISTA SOTTOSCRIVE LA LETTERA APERTA AL MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE TERESA BELLANOVA RIBADENDO LE POSIZIONI ABOLIZIONISTE NEI CONFRONTI DELL’ATTIVITÀ VENATORIA.

Ministro Teresa Bellanova
E p.c. AL MINISTRO DELL’AMBIENTE SERGIO COSTA
E AL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE LORENZO FIORAMONTI
Gent. Sig. Ministro,
abbiamo appreso dal sito dei cacciatori BigHunter* che suo padre era cacciatore.
La notizia potrebbe essere di non significativo rilievo, piccola nota autobiografica accanto a tante altre, e, in quanto tale, non degna di particolare attenzione. Certamente lo sarebbe se Lei non avesse ritenuto di farne menzione nel corso di un colloquio riservato con il presidente della Federcaccia Puglia, in un incontro del 15 settembre, vale a dire solo dieci giorni dopo l’assunzione del Suo incarico istituzionale, con un’urgenza che non può non far pensare ad una Sua innegabile privilegiata attenzione al mondo della caccia. Tutto lecito ovviamente, dal momento che la caccia è attività non solo legale, ma addirittura sostenuta da contributi statali perché riveste lo status di sport, nonostante il suo carattere indiscutibilmente violento e cruento. Ma, dal momento che il riferimento alla Sua famiglia non aveva il carattere di confidenza privata, bensì di comunicazione fatta nella Sua veste di Ministro, ne deriva la richiesta di alcuni chiarimenti.
Nello specifico, sarebbe fondamentale che lei rendesse noto quali saranno le ricadute sul Suo lavoro ministeriale della passione di Suo padre; averne usato il richiamo per dare rassicurazioni ai cacciatori (che non a caso ne sono rimasti entusiasti) preoccupa e autorizza ben più di un dubbio sull’imparzialità dei Suoi futuri interventi. Nello specifico, sarebbe doveroso che chiarisse, signor Ministro, se è o meno intenzionata a prendere in considerazione, e con quale rilevanza, almeno elementi oggettivi, già frutto di discussioni, polemiche, interrogazioni, quali
· il numero dei morti e dei feriti che la caccia ogni anno provoca; per esemplificare: 30 morti e 84 feriti nella stagione 2017/2018; 21 morti e 59 feriti nella stagione 2018/2019; bilancio già in progress con i primi morti registrati dall’apertura della nuova stagione (→ vittimedellacaccia.org);
· il diritto dei cacciatori di accedere nei fondi privati a prescindere dalla volontà del proprietario o del conduttore (art. 842 CPC del 1942), salvo procedimenti complessi e costosi;
· la riapertura anticipata della caccia in moltissime regioni italiane;
· il mantenimento della caccia tra le attività sportive, con i conseguenti benefici;
· l’autorizzazione ai cacciatori stessi ad entrare nelle scuole in veste di paladini dell’amore per la natura e gli animali, fonte di inevitabile confusione cognitiva nei bambini a cui viene chiesto di accettare l’equazione amore-uccisione.
Adeguate precisazioni almeno sui temi posti, sarebbero basilari per contrastare la diffusa preoccupazione suscitata dal Suo approccio alla questione, approccio che la “grandissima gioia” con cui ha riferito della passione di Suo padre fa apparire decisamente più emotivo che sorretto da quelle necessarie valutazioni imparziali e razionali, che il Suo ruolo imporrebbe. La soddisfazione dei cacciatori, celebrata sui loro siti, testimonia, se ce ne fosse bisogno, del senso della Sua comunicazione che ben trascende il significato letterale delle parole: l’appartenenza di Suo padre al mondo della caccia diventa rassicurazione, passaggio di testimone, promessa di ancoraggio acritico a valori non più condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana.
Perché, è persino superfluo ricordare, la cultura muta ed evolve nel tempo e lo fa con sempre maggiore rapidità: nel caso specifico non può prescindere da tutte le istanze presenti nel contesto culturale, in cui gli animali nonumani non possono più essere considerati come asserviti al nostro divertimento, ma invece, anche in base agli enormi contributi delle scienze etologiche, esseri senzienti e consapevoli, da rispettare all’interno di una rifondata alleanza con la natura, di cui l’uomo non è il centro, ma solo una parte, per quanto, ahimè, la più pericolosa.
Ergersi a paladini della reiterazione della violenza contro la natura e i suoi abitanti, come avviene nei contesti venatori, è atteggiamento non solo lontano dall’etica, ma altresì insensibile a quelle istanze di rinnovamento che arrivano da gran parte della società, a fare inizio dai più giovani, che non possono certo trovare nel richiamo alle passate generazioni una giustificazione ad una violenza fine a se stessa.
Le saremo grati quindi, signor Ministro, se vorrà prendere in considerazione le nostre preoccupazioni e farci partecipi delle Sue intenzioni rispetto a tutto quanto detto; in estrema sintesi, se riterrà di agire nel rispetto di 450.000 italiani cacciatori (dato LAC aggiornato ad agosto 2019) o di 60 milioni di italiani non cacciatori.
Augurandole buon lavoro.
Annamaria Manzoni
Apida
Artists United for Animals
Associazione Cattolici Vegetariani
AVI Associazione Vegani Italiani
EssereAnimali
Futuro Vegan
Gabbie Vuote
Gaia Animali & Ambiente
LAC
LAV
LEAL Lega AntiVIVIsezionista
META
Movimento Antispecista
SOS Gaia
Vivere Vegan
Vita Da Cani
(*) Dal sito BigHunter: Domenica 15 settembre, a Lecce, c’è stato un incontro tra il presidente regionale Federcaccia Puglia, Giovanni Ciccarese, e la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Il presidente Ciccarese ha avuto un breve colloquio riservato con la ministra, alla quale ha portato il saluto del presidente nazionale Federcaccia Massimo Buconi, anticipazione di un incontro con lo stesso a Roma. Ciccarese ha poi messo in guardia l’onorevole Bellanova sul suo competitor all’ambiente, il ministro Costa e sulle sue posizioni apertamente e dichiaratamente anticaccia. A questo punto, con grande gioia la ministra ha risposto testualmente “Avvocato, mio padre era cacciatore”.
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