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“Rapporto sul maltrattamento animale in Italia”: Prefazione di Annamaria Manzoni

Apr 17, 2017 | Argomenti, LEAL informa, Vivisezione

cover_Rapporto_maltrattamento_2016Clicca qui per leggere e scaricare gratuitamente il “Rapporto sul maltrattamento animale in Italia 2016”

È il primo dossier sul maltrattamento animale in Italia: oltre 600 pagine che comprendono articoli e notizie di crimini nei confronti degli animali.

Il volume ha il sostegno di LEAL Lega Antivivisezionista e di Riscatto Animale. Di seguito la Prefazione firmata da Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice.

Testo di Annamaria Manzoni
Il dossier riferito al 2016 fornisce, con la concretezza dei dati raccolti, un quadro realistico del fenomeno dei maltrattamenti animali in Italia, pur nella sua dichiarata incompletezza, data l’impossibilità di accedere a dati esaustivi (spesso oscurati da indifferenza quando non vera e propria omertà), si risolve in una sorta di vera e propria galleria degli orrori, dalla cui lettura si riemerge come da una discesa agli inferi.
Va premesso che vi si parla di sofferenze inferte non a tutti gli animali in tutte le situazioni, non, per chiarire, alle vittime degli allevamenti intensivi e dei macelli, della sperimentazione animale, della caccia, della pesca, dei circhi, degli zoo, delle manifestazioni culturali (nelle quali, per altro, mai il termine cultura fu peggio mistificato). Il focus è essenzialmente sugli animali protetti dalla legge, nello specifico la 189 del 2004, la quale, pur nella preoccupazione di difendere non loro, ma solo la sempre prioritaria sensibilità umana, esposta a possibili reazioni traumatiche davanti a episodi raccapriccianti (“Delitti contro il sentimento per gli animali” recita il titolo IX Bis), di fatto pone argini legali al loro abuso; in secondo luogo su tutti gli altri, quando i maltrattamenti risultano gratuiti, non funzionali all’uso normato dalla legge.
I dati, quindi, riguardano soprattutto quegli animali che, pur nella loro diversità, trovano un denominatore unificante nello stacco da quelli “da reddito”, “da carne”, “da latte”, “da pelliccia”, la cui stessa esistenza è identificata con lo sfruttamento a cui sono stati destinati. Genericamente, quindi, anche se non solo, gli “animali da affezione”, così definiti con un’espressione che richiama una dinamica di emozioni e sentimenti, attaccamento e affettività, che auspicabilmente si vorrebbero davvero entrare in gioco nella relazione umano-non umano.
Purtroppo però il dossier è ben lungi dall’aprire finestre sul mondo confortevole degli affetti: parla invece di animali lasciati a morire di fame e di sete, massacrati, impiccati, trucidati; soggetti a irriferibili pratiche sessuali; avvelenati con polpette imbottite di chiodi; torturati con collari elettrici; ammazzati a bastonate; bruciati, seviziati. Sì: come la legge si premurava di tutelare, il “sentimento” di molti di noi umani davanti a tutto ciò è profondamente ferito, annichilito; ma lo è incredibilmente di più la sensibilità delle vittime, quella fisica fatta di nervi, muscoli e sangue, e quella emotiva, invasa da un immaginabile insostenibile terrore.
Ora, la pratica della violenza sugli animali, ogni violenza ma a maggior ragione quella gratuita, fine a se stessa, non può non interrogare sulla sua genesi e sulle sue conseguenze; domande complesse e risposte articolate dal momento che le une e le altre si allargano a macchia d’olio ad investire realtà composite. Si legano ad un discorso ancora più generale: non si può parlare di violenza sugli animali senza parlare di violenza tout court e riflettere sul link innegabile che unisce tutte le forme che può assumere e che, se disconosciuto, non ne permette comprensione e superamento. Illuminante è la sollecitazione di Steven Pinker (“Il declino della violenza”, Mondadori 2013) nelle prime righe del suo mastodontico studio su quello che lui descrive come un processo storico di affievolimento della violenza: bisogna studiarla in tutte le sue manifestazioni, dice, “dalle dichiarazioni di guerra tra le nazioni alle sculacciate ai bambini”: osando così un accostamento coraggioso, che è prologo all’inquadramento del problema: esiste un link indissolubile tra tutte le manifestazioni, anche quelle apparentemente del tutto estranee l’una all’altra come lo possono essere i conflitti nazionali e gli scapaccioni cosiddetti educativi. Del resto secondo la teoria del caos il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas: allora non è poi così difficile capire come tutti i comportamenti unificati dalla tensione ad infliggere sofferenza ad un essere indifeso siano incredibilmente più collegati di quanto si possa genericamente ritenere.
Se è vero che la violenza, in forme diverse, ha accompagnato l’uomo in tutta la sua storia, è altrettanto vero che gli animali ne sono sempre state le vittime predilette: perché quella su di loro nel corso dei millenni non è stata punita dalle leggi, perché non comporta ritorsioni vendicative da parte dei sopravvissuti, perché l’assenza di condanne morali l’ha autorizzata. Le leggi in loro difesa hanno cominciato a delinearsi timidamente solo nella seconda metà dell’800 e si sono poi gradualmente organizzate fino ad arrivare a quelle attuali che se ne occupano in modo un po’ più rigoroso. Con enormi limitazioni, però, perché questo avviene solo in alcune aree del mondo, essenzialmente quello occidentale, perché riguarda solo alcune specie, e perché le leggi, tanto faticosamente approvate, si scontrano con una ingiustificabile ritrosia da parte dei responsabili ad essere applicate.
Ancora oggi gli animali non umani sono visti come non-portatori di diritti o al massimo come portatori di diritti flebilissimi: per arrivare a parlare del dovere di proteggerli è stato prima necessario scrivere, ma soprattutto interiorizzare, norme che attengono al concetto dei diritti dell’uomo, che progressivamente hanno aperto la strada a dichiarazioni sui diritti delle donne, dei bambini, degli omosessuali: solo dopo è stato possibile cominciare ad occuparsi di quelli dei non umani. Riconoscere diritti contempla bandire violenze gratuite: e infatti non esistono più i supplizi pubblici una volta esibiti con orgoglio da chi deteneva il potere; ci si illude che i luoghi di detenzione ne siano alieni, salvo poi doversi drammaticamente ricredere sulla scorta di troppo frequenti notizie di cronaca; se un tempo, lontano solo pochi decenni, i bambini potevano tranquillamente essere ”educati” con metodi piuttosto degni di un regime dittatoriale che di un contesto familiare e comunque non stupiva vederli presi a scapaccioni da solerti genitori anche nelle strade, oggi un’evenienza del genere provocherebbe l’intervento immediato del Telefono Azzurro. Analogamente addirittura frustare cavalli o asini perché incapaci di reggere pesi insopportabili era pratica comune e non vergognosa, come lo era prendere gratuitamente a calci i cani per le strade, ma anche fare loro molto di peggio. Nuove norme e nuove consuetudini vi si oppongono: la legge purtroppo si mantiene restia ad intervenire e le condanne risultano pressoché inesistenti.
Il fenomeno aberrante dei maltrattamenti degli animali si manifesta in forme diverse non solo in merito alla creativa fantasiosità dei tormenti loro inflitti, che il dossier testimonia con dovizia di particolari, ma anche in funzione dei contesti. Esiste indubbiamente una realtà riferita a psicopatici, che nell’infliggere dolore a esseri senzienti, umani o non umani che siano, sperimentano un piacere sadico. Sono le situazioni più citate, perché in fondo le più rassicuranti: tutto il male viene rigettato fuori dai confini di nostre responsabilità anche indirette e risulta facile sbattere in prima pagina il mostro di turno: tutta colpa sua. Ma queste persone perverse, patologicamente portate ad esprimere comportamenti efferati, sono responsabili solo di una piccolissima fetta di quanto succede: fortunatamente non viviamo in un mondo affollato da psicopatici sanguinari. Molto più diffuse sono le realtà in cui la brutalità è solo l’ultimo atto di un percorso formativo purtroppo disconosciuto, in cui siamo in tanti ad avere una parte indiretta. È innegabile, per esempio, che sevizie gratuite a danno di cani e gatti abbiano luogo molto più nel sud Italia che non al nord, fatto per nulla casuale, non riferito a predisposizione genetica, ma all’evidenza di un contesto sociale, che asseconda e favorisce questi atti, intrecciati in un rapporto di contiguità e causalità con quello del randagismo, in alcune regioni lontanissimo non dall’essere sconfitto, ma persino dall’essere seriamente contrastato. Convivenza con cani randagi significa abitudine a vederli in ambienti per loro inadeguati, organizzati magari in bande, giudicate pericolose dal consesso umano e pertanto vittime di interventi crudeli, spacciati per difensivi: i cani vengono scacciati a sassate, impediti a trovare cibo, investiti dalle auto, lasciati ad agonizzare ai bordi delle strade. Ne consegue la convinzione che quella vissuta ai margini, perseguitata e braccata, sia la normale vita dei cani, che scacciarli con metodi violenti sia intervento giusto e meritorio, che far loro patire tutte le sofferenze conseguenti sia la risposta adeguata alla loro stessa intrusiva e minacciosa presenza. Il passo tra respingerli a sassate, ferirli, investirli più o meno casualmente a quello di colpirli deliberatamente e poi seviziarli creativamente è davvero breve. Da una violenza implicita nel trattare gli animali come intrusi molesti e pericolosi a quella esplicita di martoriarli non c’è soluzione di continuità. La reazione sdegnata che talvolta si scatena al diffondersi di un caso particolarmente aberrante, magari esasperato dalla protervia dei selfie e dall’arroganza dei filmati diffusi in rete, è salutare, ma davvero poco utile se si esaurisce nella solita sterile indignazione: è successo con il cane Angelo, randagio di Calabria martirizzato da quattro ragazzotti sfaccendati, divenuti emblema di crudeltà. Non ne è seguita una doverosa riflessione: molto più semplice pensare ad un atto di teppismo che non decodificare una dinamica che vede implicate le responsabilità di molti e l’inerzia complice delle autorità.
Tanti sono poi i casi in cui ad agire comportamenti crudeli sugli animali sono giovani e giovanissimi, che spostano su chi è più debole di loro una violenza imparata sulla propria pelle, di vittime o di testimoni, in ambienti familiari o sociali in cui l’unica legge vigente si rifà al diritto del più forte. Ma non meno diffusi comportamenti devianti di chi il diritto del più forte lo mette in pratica per pura passione, non come formazione reattiva ad ingiustizie subite: ed ecco allora insospettabili professionisti, senza giustificazioni di degrado o ignoranza, praticare una sorta di vendetta trasversale sul cane o sul gatto della compagna infedele, alternativa meno rischiosa, in termini di conseguenze, dei femminicidi che sono il coronamento di tante supposte passioni amorose.
Un filmato di alcuni anni fa della Regina d’Inghilterra che, dall’alto dei suoi regali novant’anni, finiva con furore, a bastonate, delle quaglie ferite, se si supera la reazione disorientata che immediatamente ne segue, apre altri insospettati file sul problema. Il discorso si allarga a cerchi concentrici includendo altre realtà che normalmente non vengono prese in considerazione, ma che invece hanno grande parte nel percorso di formazione della violenza: è recentissima per esempio la legge che, trasformando le nutrie da animali protetti ad animali invasivi, ha decretato non la possibilità, ma il dovere di eliminarle: a fucilate, con trappole o tanti altri mezzi, in qualsiasi ora del giorno o della notte, ovunque ci si trovi. Ora, lo spettacolo di animali dolci e miti, che, mentre cercano una via per salvare la propria vita, vengono prese a fucilate, ma magari anche a badilate, in realtà si configura come modello di crudeltà legalizzata, pubblicamente ed orgogliosamente esibita, che non può non creare zelanti seguaci. Un animale in fuga braccato, ferito e ucciso da omoni eccitati all’idea di sparargli (che per inciso ne avranno un premio economico alla consegna del cadavere) è indiscutibile scuola di violenza. Di cui non si sente davvero il bisogno, visto lo stato delle cose, che contempla comportamenti costruiti sulle motivazioni più articolate, tra le quali, per quanto faticoso sia ammetterlo, quella della noia: si torturano e si uccidono animali per divertirsi e vincere il grigiore di ore e giorni che non si sa come riempire. Esattamente come facevano i ragazzi che alcuni anni fa, in risposta all’inerzia di un pomeriggio o di una serata piatta e opaca, decidevano di lanciare sassi dai cavalcavia. E pazienza se poi ci scappava il morto.
Insomma: il tema della violenza, nello specifico della violenza sugli animali, è talmente complesso da richiedere una trattazione vasta, passibile di essere solo lambita in questa sede. Quello che è certo è che almeno su una delle componenti che ne costituiscono il mosaico multiforme ed eterogeneo non si può continuare a restare inerti: è la risposta che ne deve seguire anche a livello istituzionale. Non punizioni severe, come spesso si invoca sull’onda della reazione emotiva a qualche episodio particolarmente efferato, prima di lasciare di nuovo cadere tutto nel grande serbatoio della rimozione: punizioni giuste. Schopenhauer affermava in una delle sue celeberrime asserzioni che “Non pietà, ma giustizia è dovuta agli animali”. Ed è di giustizia, non di altro, che si sta parlando: astenersi dal condannare in forza della legge ciò che è condannabile dal punto di vista morale coincide con la riduzione dei crimini a comportamenti bagatellari, tipo furto del cellulare, ma anche un po’ meno: “Sì, va beh d’accordo, però… Non facciamola tanto lunga, con tutto quello che succede”. Il benaltrismo è dietro l’angolo: con l’attitudine a quella sorta di confronto vantaggioso per cui le cause importanti di cui occuparsi sono sempre ben altre. Di fronte a noi quella che si vede è invece la punta di un iceberg costruito sulle ingiustizie a danno di chi è debole e non può difendersi, di legalizzazione del diritto del più forte, di mancanza della capacità di identificazione con la sofferenza di esseri senzienti.
Si sta parlando in altri termini della necessità di una diversa visione del mondo, di un altro approccio alle cose della vita: vita le cui dinamiche non sono quelle a somma zero, in cui la sconfitta dell’uno corrisponde alla vittoria dell’altro: si può vincere solo sommando il proprio bene a quello degli altri. Diceva Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza, che “Chi è amico della nonviolenza crede… al principio delle onde, per cui ciò che si è e si fa si diffonde, spesso impercettibilmente, e arriva lontano”. A ognuno di noi la scelta se diffondere finalmente una rivolta morale che propugni rispetto e solidarietà per tutti i viventi o un messaggio di prevaricazione, che trasforma in inferno la vita degli altri animali, ma contestualmente ci disonora e finisce per definirci nella barbarie e nella miseria di cui tanto spesso ci facciamo interpreti.

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