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Cavalli: quella vita che fu tenuta a freno

Giu 30, 2017 | Argomenti, LEAL informa | 1 commento

In questi ultimi mesi i cavalli sono divenuti protagonisti di situazioni di interesse mediatico: e, visto il trattamento che devono subire, davvero ne avrebbero fatto volentieri a meno.

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.

Una notizia, riportata su alcuni media stranieri, ma non risulta su quelli italiani, riguarda la corsa ippica del White Turf di St Moritz, interrotta in seguito alla caduta rovinosa di un cavallo, Boomerang Bob: secondo consolidata norma, il fantino ferito è stato trasportato in elicottero in ospedale, il cavallo più sbrigativamente è stato soppresso. Stava correndo al galoppo sul ghiaccio, perché questo è il White Turf. Si potrebbe disquisire a lungo sul senso del costringere cavalli a correre su un tale genere di “terreno” e ancora di più sull’abitudine di risolvere le immancabili tragiche cadute con un colpo di pistola, che sembra spazzare via ogni responsabilità, poco cambia se ad essere teatro delle sconsiderate corse sono le nobili curve di Siena, i ghiacci elitari di St Moritz o le strade di una malfamata Catania. Senza entrare ulteriormente nel merito, l’episodio è utile a sottolineare che questa è la norma per i cavalli fortunati, quelli cioè non destinati alla macellazione.
White_TurfSì, perché è necessario prima di tutto ricordare la posizione del tutto particolare che occupano i cavalli nella nostra società e anche dal punto di vista della zooantropologia, vale a dire della disciplina relativa al rapporto uomo-animale: nella grande maggioranza dei casi sono considerati “animali da reddito”, tanto che esiste addirittura una inequivocabile sigla a definirne la sorte: DPA, vale a dire Destinato alla Produzione Alimentare. Altri, come lo sventurato Boomerang Bob, vengono destinati a scopi diversi, connessi a corse, equitazione, pet therapy… È facoltà del proprietario (mai termine fu più adeguato) decidere quindi se non DPA oppure DPA: pollice alto o pollice verso. Differenza certo non di poco conto perché nel primo caso i cavalli godono, almeno relativamente ad alcune situazioni, di pur pallide tutele quali per esempio, se considerati animali di affezione, il non essere soggetti a pignoramento alla stregua di cose (già: è solo grazie alla recentissima Legge di Stabilità per il 2016 che cani, gatti e pet in generale non vanno a pagare con la loro stessa esistenza debiti del loro padrone, insieme a frigoriferi, televisione e affini) e, almeno teoricamente, non finiranno le loro disgraziate vite in un mattatoio. Per gli altri, tutti gli altri, le protezioni sono quelle pressoché inesistenti riservate agli “animali da reddito”, la cui esistenza è subordinata per definizione alla produzione di guadagni, che, come da sempre risaputo, sono tanto più cospicui quanto più è possibile risparmiare su qualche elemento della catena produttiva, elemento scelto diligentemente tra coloro che, privi di diritti, sono in questo caso anche privi di parola. I cavalli vengono così importati ed esportati da un Paese all’altro con inenarrabili viaggi della morte che percorrono migliaia di km in un susseguirsi di giorni e di notti infernali, sulle navi provenienti dall’Argentina o sui tir in viaggio da Romania e Polonia, per finire nei mattatoi italiani, mattatoi inevitabilmente numerosi sul territorio nazionale, in quanto deteniamo il per nulla inebriante primato del maggiore consumo pro capite di carne di cavallo in Europa. Sì, perché le particolari proprietà nutritive che taluni dietologi esaltano la rendono irrinunciabile per i mai appagati appetiti di una popolazione che, per quanto satolla, pare sempre in crisi di astinenza alimentare.
Ecco: il cavallo riassume in sé tanti aspetti della relazione umano-nonumano, in cui l’assoluto antropocentrismo che ne è la base detta ogni regola. Non bastasse, sono relazioni soggette ad improvvisi rovesciamenti di paradigma nell’esclusivo interesse umano. È stato il caso per esempio delle nutrie, che, quando non sono state più considerate utili, sono divenute oggetto di una legge che, da un giorno all’altro, le ha trasformate da specie da tutelare a specie da eliminare, sorta di nemico pubblico da punire per la sua novella nocività, e la pena è stata pena di morte, senza appello e senza pietà. Oppure si può trattare del lupo, animale da tutelare in quanto in pericolo di estinzione, e noi umani vogliamo un contesto variegato e ricco intorno, perché così ci piace, ma quando si permette di nutrirsi con agnelli o pecore, che avevamo stabilito essere prede di nostra sola competenza, ecco allora esplodere rabbiose e rancorose convinzioni sulla necessità di piani di abbattimento, però “selettivi”: a pallettoni ovviamente. In questo caso, il passaggio all’atto è stato almeno per il momento scongiurato da una levata di scudi compatta che ha dato ai politici la misura di un feedback temibile a livello di consenso elettorale, vera matrice ossessiva di ogni loro pensiero.
cavalli_cadutaPure in questo discutibile contesto, il cavallo è anomalo in quanto occupa posizioni bivalenti, in virtù delle quali non necessita neppure di un’evoluzione del proprio stato per essere oggetto di trattamenti inconciliabili: lui nello stesso momento può essere compagno di vita, da amare e difendere, seppure in modi altamente discutibili, oppure carne da macello, a seconda delle necessità. Come si diceva, basta una dichiarazione, l’etichetta di DPA oppure di non DPA e in lui verrà visto ciò che ognuno considererà opportuno vedere. Dimostrazione inconfutabile di come sia la cornice cognitiva in cui poniamo l’altro a determinarne il valore, il senso, e quindi il destino. Lo facciamo regolarmente con tutti i nonumani, che consideriamo inferiori a noi, autoposizionatici in quel centro dell’universo, in cui si accentrano diritti e privilegi, che sono di fatto squisita espressione del diritto del più forte. Lo facciamo peraltro, in modo solo lievemente meno esplicito, anche con gli umani, detentori del diritto al rispetto e all’attenzione in funzione della loro provenienza, della loro (presunta) razza, del loro genere, del loro reddito.
Con i cavalli raggiungiamo l’apice dell’illogicità, che rendiamo sostenibile non a suon di ragionamenti, che non sarebbe possibile, ma a suon di leggi che affossano, oltre alla logica, il senso di giustizia.
Risulta esemplificativo un secondo episodio, reso di pubblica conoscenza grazie a Edoardo Stoppa, entrato per conto di Striscia La Notizia in un centro di equitazione a Capalbio, provincia di Grosseto, a seguito di una segnalazione corredata da video: un giovane cavallo si rifiuta, spaventato, di saltare un ostacolo perché evidentemente non si sente in grado di farlo, oltreché presumibilmente perché non ne capisce il senso: e come dargli torto? In risposta, la giovane fantina procede a fustigarlo per un tempo che se a chi guarda sembra infinito (vengono contati l’uno dopo l’altro 13 colpi di frusta, inferti su muso e collo) a chi lo subisce deve risultare insostenibile. Ad incitarla è l’istruttrice con dei reiterati Giusto! Giusto! Giusto! che esprimono approvazione, ma anche una soddisfazione, che, frutto del male inferto, non merita di essere definita altro che sadica. I gesti e l’atteggiamento controllati testimoniano la sua dimestichezza con la dinamica in atto, dimestichezza di cui sono ulteriore prova provata le reazioni sue e del padre alla richiesta di spiegazioni del giornalista. Il padre si difende e attacca con un “E allora? Ha fatto bene!”, lei, dopo qualche maldestro tentativo di negare l’innegabile, assicura che non è che lo fa quotidianamente. Davvero un sollievo: quindi, non proprio tutti i giorni? Qualche volta si astiene? È del tutto evidente che né lei né tanto meno il padre ritengono il fustigare in quel modo il cavallo azione stigmatizzabile, indecente, vergognosa: anzi. Fanno “scuola”, insegnano ad altri: in questo caso ad un’altra giovane donna, che impara ciò che l’autorità, che loro in quel contesto rappresentano, le insegna, impara bene e presto: e chi lo sa se qualcuno dei colpi che infligge ad un animale indifeso rimbomba almeno un po’ nelle sue corde. Chi lo sa se almeno un pensiero sulla crudeltà di quello che sta facendo prende forma in lei. Certo, la ragazza ha delle scusanti, perché sta andando a scuola e agli insegnanti va concesso il pregiudizio positivo di “sapere”. Anche se, giova rifletterci, la sua reazione obbediente non era scelta obbligata: il rischio connesso ad una condotta non compiacente, ad una possibile flebile insubordinazione alle esortazioni autorevoli poteva comportare, nella più estrema delle ipotesi, un’interruzione del suo percorso “formativo”: non una tragedia, insomma, anzi: alla luce dei fatti una benedizione. Esistono di certo adolescenti capaci di un giudizio critico in grado di bypassare il principio di autorità in nome del primato di emozioni e sentimenti di segno contrario, di una capacità critica coniugata con una evoluzione etica diversa, che in qualche caso sono alla radice di ben più radicali rivolte giovanili. Al suo posto, avrebbero detto NO, cosa che lei non ha fatto forse per diligenza, forse per debolezza, forse per un’abitudine già troppo consolidata al conformismo.
Ora se lo stesso cavallino (indifeso) fosse stato frustato nello stesso modo (pesantemente e ripetutamente) senza colpa alcuna (era terrorizzato) in un contesto pubblico, anziché al riparo dell’autorità di una scuola di equitazione, i protagonisti non avrebbero esibito la stessa sicumera: è il contesto in cui agiscono che li rassicura perché consente di spacciare la crudeltà in atto per intervento educativo. La violenza viene così legittimata, organizzata, integrata nel sistema, giustificata da uno scopo socialmente accettato; viene attribuita al male in atto una giustificazione morale: il cavallino va educato. Ennesima applicazione della teoria del fine che giustifica i mezzi, in nome della quale storicamente i peggiori crimini sono stati commessi, e della consuetudine per cui, quando le persone fanno del male, lo fanno in nome del bene. Della grande schizofrenia in atto paga il prezzo l’unico innocente sulla scena del delitto, il giovane cavallo: per lui l’ingiustizia è dolore, lo spaesamento per una violenza selvaggia ne doma la vitalità, le ferite sulla pelle bruciano davvero. Così impara! Impara la legge del più forte, che è sempre l’umano, anche nella sua versione femminile, graziosa, bene educata e controllata, che non si scompone nell’impartire ordini crudeli. Tanto non occorre forza fisica: l’unica imprescindibile condizione è l’assenza di empatia, di quella risorsa, cioè, in grado di arricchire l’essere umano con la risonanza dell’eco dolorosa del dolore altrui, schermo e barriera all’infliggerlo quel male. Lei non ce l’ha. E per quanto ridondante rispetto alla imprescindibile condanna, un’altra considerazione richiama alle ripercussioni di tutto questo, sulle onde lunghe con cui si propaga: chi frusta o incita a frustare violentemente, ripetutamente, a freddo, senza compassione un animale indifeso perché vuole domarlo di certo è in grado di riproporre la stessa dinamica in altra situazione: magari alla luce di altre motivazioni, che dilagano da quelle pseudoeducative, ad un semplice desiderio di potere o magari rispondono all’urgenza di sfogare una rabbia che preme. Quando i gesti entrano a comporre come elementi costitutivi il nostro patrimonio comportamentale, finiscono per appartenerci; se l’empatia è assente o zittita, se la filosofia di base giustifica i mezzi pur di perseguire un fine, è reale il rischio che un altro fine, giudicato buono perché funzionale al proprio interesse, apra la strada a comportamenti altrettanto crudeli, risvegliati da nuovi scopi, dall’inclinazione del momento, da una motivazione propulsiva. Insomma il discorso va a toccare il grosso link che congiunge la violenza legale a tutte le altre forme di violenza, link mai abbastanza preso in seria considerazione.
Sullo sfondo di questa vicenda, c’è l’urgenza di un interrogativo, che ci coinvolge tutti: davvero è lecito ignorare la realtà dell’ippica in generale, delle scuole di equitazione e di tutto quello che concerne l’addestramento dei cavalli? Qualche cosa la sappiamo tutti, per esempio che l’equipaggiamento minimale di ogni allievo, l’armamentario di ordinanza prevede frusta e speroni. Strumenti pacifici?! E che dire dei morsi da mettere in bocca al cavallo, delle briglie, dei paraocchi, degli zoccoli, delle selle se non che sono mezzi di contenzione, di sopruso, di imprigionamento, di limitazione della libertà di movimento e di esplorazione? Un mondo che ama celebrare la retorica dell’amicizia tra l’uomo e il cavallo rimuove il significato di doma, che è precondizione all’instaurarsi di una relazione che definire amicale è davvero mistificatorio: domare, to break the spirit dicono gli anglosassoni, rompere lo spirito, eliminare lo slancio vitale, cancellare l’afflato verso la libertà, è fondamentale per “addestrare” il cavallo a comportamenti estranei alla sua natura. È singolare come nella rappresentazione di questo animale, nell’immaginario che lo definisce, si celebrino forza, vitalità, prorompenza, e come la relazione con lui venga edificata sulla metodica regolare soppressione di tutto questo, sulla negazione dei suoi bisogni e desideri: insomma “Quella vita che fu tenuta a freno” nelle suggestioni di Emily Dickinson.
Alcune associazioni animaliste hanno dichiarato che sporgeranno denuncia per maltrattamento animale contro i protagonisti di questa brutta storia: l’auspicio è che sia l’occasione per alzare il velo sulle tantissime realtà che riguardano la vita (e la morte) dei cavalli, quei “figli del vento” indomiti e coraggiosi, ogni giorno resi schiavi da quel bisogno di dominare la natura, che pare essere paradigma costitutivo del pensiero moderno.

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