Questa volta della corsa dei buoi di Chieuti hanno parlato giornali e media, almeno alcuni: perché lo “spettacolo” si è volto in tragedia, il 22 aprile scorso, quando un uomo di 78 anni, venuto dal Molise per assistere alla manifestazione, buttato a terra da un cavallo, che aveva disarcionato il fantino, è stato travolto poi da due carri dei buoi lanciati in una corsa folle, e ha riportato ferite tali da procurarne la morte. Il doveroso cordoglio per la vittima pare avere esaurito l’interesse per l’accaduto, sulla cui dinamica, come da trito copione, “indagherà la Procura”: che cercherà di risalire alle eventuali responsabilità relative alle misure di sicurezza, a quanto sembra non rispettate, visto che lo spazio per il pubblico non era adeguatamente transennato. Dopo di che discorso chiuso fino all’aprile del prossimo anno, quando tutto si ripeterà, prevedibilmente con qualche attenzione in più per gli umani, e con il solito spensierato menefreghismo per i nonumani, cavalli e buoi, della cui sofferenza nelle cronache non si trova cenno alcuno.
La sagra di Chieuti può avere luogo solo su autorizzazione della regione competente, la Puglia, secondo quanto previsto dalla legge 189 del 2004, che, dopo pagine sul dovere di rispettare il benessere animale, esenta dal farlo le “manifestazioni storiche e culturali”. Che il rispetto per il benessere animale sia del tutto estraneo alla sagra è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di guardare: ogni anno il 23 o 24 aprile dei buoi legati in pariglia vengono costretti a galoppare per cinque km, loro animali lenti per natura; ma non basta: devono farlo trascinando pesi di quintali; il loro tentativo di sottrarsi al supplizio viene abbattuto da uomini virilmente lanciati a cavallo che li pungolano con lunghe aste, mentre la folla intorno, eccitata e vociante, grida e tifa, incurante anche degli incidenti che inevitabilmente coinvolgono buoi e cavalli. Spettacolo davvero edificante, che considerare “storico e culturale” pare davvero un azzardo linguistico e semantico. Eppure le autorità riescono nella mission impossible di farlo sulla scorta della credenza che le sue origini sarebbero legate alla leggenda di San Giorgio, il quale, secondo racconti risalenti all’Alto Medio Evo, avrebbe convertito al cristianesimo la città libica di Selèm, catturato e umiliato il drago che la affliggeva, dapprima trascinandolo come prigioniero e poi, non pago di averlo sopraffatto, trafiggendolo e facendone trainare il cadavere fuori dalla città per l’appunto da una coppia di buoi, lontani antenati di quelli oggi pubblicamente tormentati. Di leggenda appunto si tratta, sul cui senso esemplare tra l’altro molto ci sarebbe da argomentare: davvero la fama di un santo della tradizione cattolica può vantarsi dell’uccisione terribile di un essere vivente, chiunque esso sia? Davvero la conversione di un’intera città, nessun abitante escluso, che parla non di un percorso di consapevolezza, ma piuttosto di costrizione, può mantenere le valenze di un atto meritorio? Comunque, se le autorità religiose possono arrogarsi il diritto dell’esclusiva in questo genere di valutazioni, è invece laico diritto di ognuno esprimersi sulle sevizie su animali pacifici e indifesi, come momento di pubblico festeggiamento, di esaltazione e di gioia.
È necessario chiarire che la sagra di Chieuti è solo una delle molte centinaia, forse migliaia, di manifestazioni che prolificano sul territorio nazionale, amplificate a dismisura dalla bella stagione, tutte incentrate sulla costrizione di animali a comportamenti estremi: se i buoi (tormentati anche ad Asigliano e a Caresana, provincia di Vercelli, ma anche altrove) sono per natura lenti, allora nessuna migliore trovata che farli correre a perdifiato, in contrasto con la loro natura, la loro mole, la loro struttura fisica; ai cavalli invece il compito di trascinare carretti carichi di pietre sotto il sole cocente (succede a Supersano, in Puglia); davvero spiritosa la costrizione delle oche a sfidarsi in velocità per 1500 metri, che così starnazzano di più (a Lacchiarella, provincia di Pavia, dove sono circa 20.000 le persone che accorrono liete); che la colombella bianca, legata all’interno di un tubo di plexiglas, a Orvieto, scendendo giù in caduta libera dal campanile della chiesa, mentre petardi e mortaretti impazzano, riproponga simbolicamente la discesa dello Spirito Santo riduce a feuilleton uno dei cardini del cristianesimo.
L’elenco è lunghissimo e non risparmia nessuna specie: rane, maiali, tacchini, serpenti, galli, capre, asini, in una geografia degli orrori, virulenta nelle regioni del sud, ma certo non assente nelle altre, che di tutto pecca tranne che di creativo sadismo.
Denominatore comune è far fare agli animali quello che non è nella loro natura fare, il che provoca loro sofferenza fisica, stress, paura, sgomento: e proprio dalla loro sofferenza e dal loro terrore si origina il chiassoso divertimento del pubblico. Negli ultimi anni molte reazioni sdegnate hanno indotto gli organizzatori ad un minimo di tutela, non dell’incolumità dell’animale coinvolto, ma piuttosto di sé stessi dalle critiche più feroci e hanno indotto a riscrivere le parti più cruente delle manifestazioni: per esempio a Roccavivara (Molise) non uccidono più a bastonate un gallo immobilizzato nel terreno, anche se zelanti impiegate dell’Ufficio Turistico rassicurano i turisti delusi che “almeno” i filmati sono ancora visibili in rete; mentre a Tonco (provincia di Asti), il tacchino esposto morto a testa in giù per essere decapitato dai giovani locali è stato sostituito da un simulacro in stoffa.
Benché le sagre a dispetto del nome (che deriva dal latino sacer) siano quanto di più estraneo ci sia all’idea di spiritualità, la chiesa si ostina a dare loro non solo il proprio benestare ma anche la propria benedizione, sdoganandone la liceità in genere in onore del santo patrono a cui sono dedicate: la realtà viene così per l’ennesima volta mistificata, con la connotazione dell’evento di una sacralità, completamente inesistente; che anzi i riti sono oggi paganissimi, violenti, risolti infine in una sorta di delirio gastronomico, dal momento che il gran finale contempla regolarmente un’enorme abbuffata. Ciliegina sulla torta: spesso ad essere il succulento richiamo culinario sono conspecisti degli animali tormentati nella sagra: così la festa del maiale, quella dell’asino, quella del pollo si snodano nel tormento e nella riduzione a cibo dei festeggiati, senza che nessuno trovi nulla da ridire. Gran bella confusione sul piano cognitivo e ancora di più su quello etico, fomentata dalla mistificazione della realtà, che viene raccontata sulla base delle credenze e del pensiero diffuso anziché sui fatti.
La necessità di qualche chiarimento incalza: non fosse che per mettere al sicuro protagonisti di altre feste: quella dei carabinieri, dei nonni, della mamma, del papà… Se la Chiesa conserva enormi responsabilità al riguardo, le autorità laiche non sono certo da meno, anzi: essendo loro a decidere se autorizzare o meno le manifestazioni, gestiscono un potere grande, il cui esercizio dovrebbe contemplare la valutazione dell’evento, a partire dal significato che riveste. Se lo facessero, potrebbero emergere contenuti ben poco meritevoli di tanto entusiasmo: per esempio ad Asigliano il sottoporre i buoi ad una corsa per loro terrorizzante e faticosissima avrebbe avuto origine (il condizionale è d’obbligo), nel 1436, come atto “in segno di gioia e di gratitudine” verso San Vittore per avere liberato la città dalla peste. In altri termini il debito di gratitudine per la grazia ricevuta non viene pagato da chi ne ha usufruito e ne gode i vantaggi in termini di salute ritrovata, ma viene caricato sulle spalle di chi, del tutto estraneo alla vicenda, è debole, indifeso, impossibilitato a ribellarsi. Insomma: è uno dei tanti modi di trovare una vittima sacrificale, un capro espiatorio, così come si fa con l’agnello pasquale, sgozzato, lui che è icona di innocenza, per pagare i peccati di chi, pur molto pentito e mortificato per essersene macchiato, non ha proprio nessuna intenzione di farlo in prima persona. Viene in mente per associazione la figura del whipping boy, del ragazzino cioè che, nell’Inghilterra del 1400/1500 , veniva assegnato a un giovane principe affinché venisse frustato al posto suo ogni volta che veniva meno ai suoi doveri: usanza che ci indigna profondamente nella sua portata di ingiustizia cosmica, di un’indignazione che è però refrattaria ad un serio esame dei nostri comportamenti, che quindi riproponiamo pari pari nella sostanza, anche se non nella forma, cambiando la tipologia della vittima, da umana in nonumana.
I fatti dimostrano che questo genere di approfondimenti è estraneo agli interessi delle autorità preposte: le quali però non dovrebbero davvero esimersi dal prendere atto se non di antichi e a volte discutibili significati, almeno delle modalità presenti delle manifestazioni a cui devono attribuire la connotazione di essere, oltre che storiche, anche culturali. Si tratta, in sintesi, di situazioni in cui degli animali vengono visibilmente maltrattati, sempre terrorizzati, a volte vittime di rovinosi incidenti che ne causano il ferimento o la morte. Il tutto celebrato come festa popolare, davanti ad un pubblico sempre molto numeroso, rumoroso, vociante, del tutto indifferente e insensibile ai segnali di sofferenza degli animali coinvolti, anzi, eccitato dall’eccitazione degli uomini coinvolti che in genere aizzano i protagonisti nonumani all’estremo, con l’uso di fruste, bastoni, pungoli. Per altro è dalle analisi di Gustave Le Bon, quindi dal lontanissimo 1895, che sono noti i meccanismi psicologici che determinano i comportamenti delle folle, dettati da impulsività, assenza di giudizio e spirito critico, suggestionabilità, contagio con le emozioni degli altri: la realtà viene deformata, il senso critico obnubilato.
Quando la folla è ormai accorsa, ogni richiamo alla ragionevolezza è fuori tempo massimo: resta solo l’eccitazione che contagia vicendevolmente i presenti. Se un’analisi non ha avuto luogo in precedenza, non è certo questo il momento in cui ci si può aspettare approfondimento critico e pacata valutazione dell’evento in corso. In tutto questo, tra la folla sono tanti i bambini e ragazzini che le famiglie hanno portano a divertirsi e che qui imparano la lezione che viene impartita non teoricamente, ma molto più efficacemente con la proposta di un modello che, a seconda dell’età, faranno grande fatica a mettere in discussione, perché è l’autorità di chi lo propone a decretarne la bontà. E l’autorità, oltre a quella cittadina, è quella fondamentale dei grandi di riferimento, genitori, nonni, zii, che sono i depositari del sapere, della morale: impresa titanica quella di sottrarvisi. L’euforia collettiva, se non li spaventerà, li coinvolgerà e si entusiasmeranno davanti al disagio, alla difficoltà, alla sofferenza degli animali coinvolti: enorme scuola di desensibilizzazione, di diseducazione all’empatia, di indifferenza destinata ad allargarsi a macchia d’olio in altri settori della convivenza.
C’è da chiedersi quale consapevolezza abbiano di tutto ciò gli organizzatori di queste sagre e ancor di più le autorità che danno il loro benestare; c’è da chiedersi quale idea del mondo abbiano, se mai ne abbiano una, che cosa vadano perseguendo se non un vantaggio immediato, magari solo in termini di consenso, derivante dall’elargizione di queste moderne forme di panem et circenses, in grado di sopire, anche se per un tempo effimero, altre aspettative.
In conclusione, è venuto il tempo in cui si ponga davvero definitivamente fine a spettacoli che elevano la prepotenza e la sopraffazione a elementi di gioioso intrattenimento: la legge afferma che basta l’etichetta di “storico e culturale” per autorizzare il disinteresse per il benessere degli animali? È un’idea che andrebbe totalmente rivista: in attesa che i politici, al momento concentrati sul proprio ombelico, trovino il tempo per occuparsene, è doveroso ridefinire il concetto di cultura, affinché acquisti il suo senso più vero. Cultura è anche quella che partendo dal mondo delle idee ha portato a progressi anche nel campo della morale: come dice Steven Pinker “Molti progressi umani sono partiti dal mondo delle idee. Basti pensare all’impegno dei filosofi nel redigere scritti contro la schiavitù, il dispotismo, la tortura, la persecuzione religiosa, la crudeltà verso gli animali, l’intransigenza contro i bambini, la violenza contro le donne e le guerre inutili”. A questo concetto di cultura i politici dovrebbero riferirsi quando decidono se e a quali esibizioni di tormenti agli animali vogliono dare il proprio benestare, senza dimenticare che si tratta di concetto dinamico, in continua evoluzione, in cui ogni elemento si interseca in un rapporto di interdipendenza con gli altri. Concetto calato nella realtà, nutrito e vivacizzato dal continuo mutare ed evolversi delle credenze, che inglobano nuove realtà, tra le quali il rispetto dovuto agli animali nonumani non è un optional, ma un dovere a cui nessuna autorità dovrebbe avere la facoltà di sottrarsi.
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psicologa e scrittrice
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