“AFFANCULO MAIALE” è il titolo, francamente poco gentile, sulla copertina del quotidiano tedesco Die Zeit dell’8 ottobre. Ma perché mai il maiale dovrebbe raccogliere l’esortazione? Di certo, a trattamenti non di favore ci è più che abituato: tra gli animali peggio citati, insultati, diffamati, il posto d’onore va senza ombra di dubbio alla sua specie, a quei maiali, che continuiamo a non conoscere nonostante li abbiamo addomesticati, alias schiavizzati nel peggiore dei modi, da un bel po’ di millenni, dal 6000 A.C. dicono gli studiosi; abbiamo da allora lasciato alla loro “controfigura”, quella dei cinghiali, un destino di libertà che resta però vigilata e controllata, soggetta al piacere dei cacciatori, che così, pur lontano dalle lusinghe dell’Africa nera, possono fingere il brivido della caccia grossa, da alternare a quella a minuscoli volatili, che, per eccitante che sia, dopo milioni di individui impallinati e disintegrati, magari finisce per annoiare un po’.
I maiali hanno la sfortuna di vivere in ogni continente, se si esclude l’Antartide, adattandosi con una certa facilità a condizioni di vita differenziate, tanto che, se lasciati in pace, potrebbero vivere anche un quarto di secolo. Ma lasciati in pace non sono mai stati, dal momento che è dall’antichità che vengono sgozzati per essere mangiati e non solo: perché, è risaputo, del maiale non si butta via niente. Conoscenza appannaggio di gran parte dell’umanità, di cui l’uomo pare darsi vanto nel celebrare la propria diligenza nell’evitare sprechi, e di cui lui, il maiale, paga lo scotto: non solo salsicce, prosciutti e salami, ma grasso x candele; pelle e tendini x corde di strumenti musicali; setole per spazzole e pennelli. Ma non basta ancora: perché i maiali sono portatori di una tale (misconosciuta) vicinanza e parentela genetica con noi umani, che la sperimentazione su di loro non conosce confini e le valvole dei loro cuori battono in tanti petti umani, in cui hanno sostituito quelle originali malfunzionanti: realtà di cui non ci piace tanto parlare e tanto meno mettere in luce le implicazioni anche etiche.
Lo sfruttamento istituzionalizzato a cui i maiali sono regolarmente sottoposti ha raggiunto livelli numerici stratosferici: se quelli allevati in Italia sono all’incirca 8 milioni, le cifre si dilatano negli Stati Uniti, dove si parla di 70 milioni di individui uccisi ogni anno, a fronte della Cina, dove i milioni sarebbero 500. È proprio da questo Paese che arrivano le ultime notizie dell’orrore spacciate per razionalizzazione della produzione : sono ormai operanti i Pig Hotels, megastrutture che arrivano fino a 13 piani, nuove frontiere dell’allevamento che sfrutta lo spazio verticale per carenza di quello orizzontale, lager legali e ipertecnologici dove ammassare un numero prima inimmaginabile di individui e ucciderli massimizzando il profitto, dove centinaia di migliaia di suini e suinetti vivono e muoiono ingabbiati, senza mai avere potuto compiere un solo passo.
Se i numeri per loro stessa natura non suscitano empatia, ma al massimo uno sconcertato stupore, lo stesso non si può dire dell’immensità della violenza moltiplicata per ogni singolo individuo suino, comprensiva di evirazioni e taglio della coda, terrore, uccisioni a catena di montaggio, sadismo nelle forme più sconcertanti che ogni investigazione mette in luce. Tutto questo su esseri che sono giocosi, intelligenti, ricchi affettivamente; che fanno un po’ sorridere con i loro gusti alimentari che contemplano anche golosità articolate, per cui meloni, banane, mele e tanti altri frutti li fanno grufolare dal piacere. Sono naturalmente riservati e rispettosi di loro forme di igiene, per cui, in natura, fanno i loro bisogni lontano da dove mangiano e da dove dormono. Amano sguazzare nel fango che è la loro crema solare, perché ne protegge la pelle dalle scottature e tiene lontane le mosche. La scrofa è madre amorevole che costruisce un nido accurato per la prole, accessoriandolo con ramoscelli e rami che cambia ogni notte. Possono riconoscere i colori, sognano e, nelle parole poetiche di un loro grande estimatore nonché studioso, Jeffrey Masson, cantano alla luna. Quando sono liberi in natura, riconoscono l’odore degli esseri umani a 400 metri, e il fatto che ci evitino con cura è uno dei segnali della loro intelligenza: mai decisione fu più saggia. La performance della sedicenne Iris che, ad un talent, si è presentata con il suo maiale Pongo il quale, scodinzolando e apparentemente sorridendo, l‘ha seguita in una prova di agility ha mandato in delirio pubblico e giuria, l’uno e l’altra evidentemente a digiuno di qualsiasi conoscenza di un maiale non ridotto in salsiccia.
A fronte di questo ed altro ancora, la rappresentazione del maiale continua ad essere quella di un animale lurido, dotato dei peggiori istinti. Il perché lo sintetizza bene l’etologo Danilo Mainardi quando dice che “Anche il maiale possiede una sua intelligenza, ha capacità sociali e affettive: ma preferiamo non venirlo a sapere, perché quest’ignoranza indubbiamente ci facilita la digestione”. Ottima sintesi di un processo psicologico elaborato: possiamo infliggere agli animali tanta sofferenza solo sulla scorta di una imponente mistificazione. Il processo empatico che agisce da riconoscimento dell’individualità dell’altro, inibisce comportamenti aggressivi accorciando le distanze e permette di mettersi nei panni altrui non ha luogo dove interviene il disprezzo: chi appartiene ad un gruppo che si considera sfavorevolmente, è escluso dalla nostra attenzione empatica.
Se tutti gli animali sono disprezzati in quanto inferiori a noi, specie eletta, i maiali disprezzati lo sono ancora un po’ di più: ed è proprio questo enorme surplus dispregiativo a sostenere l’inenarrabile abuso che facciamo di loro. È questo il motivo ultimo del costante discredito, della rappresentazione ingiuriosa e diffamante che facciamo di lui, non a caso resistente ad ogni progressiva conoscenza etologica che ne metta in luce doti, bellezze, capacità, e che viene diligentemente e prudentemente ignorata. Il maiale è totalmente reificato nel linguaggio economico che, attento all’altalena dei prezzi, si preoccupa di distinguere il “suino pesante” da quello “leggero”. Ma ci permettiamo persino dileggio e scherno della sua sofferenza: “Facciamo la festa al porco” è uno dei graziosi slogan che ha accompagnato una delle tantissime sagre estive a base di scorpacciate di salsicce, accessoriata con manifesti in cui un maiale sorridente e ammiccante, corona in testa e forchetta in… zampa, celebra la propria uccisione: oltre il danno, una beffa oscena. Che compare e ricompare nelle immagini di musi di maiale a decorazione sconcia nelle vetrine di macellerie o sui tavoli dei ristoranti. Insomma abbiamo costruito a bella posta e sosteniamo ad arte lo stereotipo del maiale quale animale spregevole: questa rappresentazione riveste un potere disinibente e dà la stura ai peggiori atteggiamenti, i quali, lungi dal provocare disagio, vengono esibiti con spensierata soddisfazione.
Non si può certo sottostimare la valenza denigratoria di tutte le bestemmie che ne usano il nome per insultare divinità da cui ci si aspetterebbe un decisamente maggiore accudimento e magari anche qualche favore; ma anche un intercalare un po’ fuori moda non si astiene dall’insulto a lui diretto: porco cane e porca miseria, ma persino “Maremma maiala”, nel fioritissimo linguaggio toscano. È all’interno di questa totale denigrazione, di una diffamazione ingiusta e indegna che abbiamo deciso che quelli che consideriamo i nostri più bassi istinti e il richiamo ad una lussuria peccaminosa non appartengano in verità a noi come specie (eletta), ma vadano buttate fuori, proiettate su qualcun altro che raccolga su di sé l’indecenza, che mettiamo in pratica, ma non ci inorgoglisce. Eccolo lì allora il maiale, ricettacolo di sozzure, indegno e turpe: un vero porco, insomma, simbolo di carnalità lasciva, bestia immonda che grugnisce e tiene sempre il muso a terra, e non alza mai lo sguardo verso l’alto, verso ciò che è puro, teso al divino, come facciamo noi.
È un gioco forte di proiezioni, di cui gli animali sono spesso l’oggetto: ne facciamo simboli e proiettiamo su di loro ciò che rifiutiamo di noi; nel maiale appunto anche gli aspetti di una sessualità che giudichiamo immonda. Dalla ferita narcisistica (così la chiamava Freud) infertaci dalla consapevolezza darwiniana che i nostri avi sono scimmie, quando ci vantavamo invece di essere stati forgiati dal tocco divino, ci difendiamo puerilmente continuando a rifiutare le nostre parti oscure, le nostre ombre, che ributtiamo su altri. Ci crediamo giganti e siamo nani; e di tutto questo gli animali pagano l’inaccettabile prezzo.
La trasformazione del maiale in simbolo di lussuria è accanimento che potenzia la sua diffamazione e giustifica ulteriormente gli orrori di cui lo rendiamo vittima. L’atteggiamento del movimento #metoo contro le molestie sessuali, in tutto questo, lascia sconcertati: nel corso della settimana della moda di New York, in febbraio, la stilista francese Myriam Chalek, direttrice creativa di American Wardrobe, ha fatto sfilare modelle, alcune delle quali accessoriate con ali a riferimento di donne angelicate, ammanettate a uomini, i loro violentatori, il cui viso era coperto da maschere di maiale: queste rappresentazioni accompagnate da slogan del tipo #balancetonporc, #denunciailtuomaiale, #fanculomaiale, ripresi in questi giorni dal quotidiano tedesco, sono insulti non ai molestatori, non ai maiali, ma all’intelligenza di ognuno. Non c’è niente di nuovo sotto quel sole che splendeva già nel Medio Evo: in alcuni Musei della Tortura, che vanno prolificando in tutta Italia, è possibile vedere la Maschera d’Infamia: si tratta di una delle cosiddette Maschere di Derisione, che aveva la forma di testa di maiale oppure di asino, che doveva essere indossata dal condannato di turno per umiliarlo pubblicamente; era un supplizio psicologico usato per privare della dignità la vittima, aggiungendo il dileggio al supplizio vero e proprio, che veniva consumato sotto la maschera stessa. A fondo bisognerebbe riflettere sul fatto che il pubblico, lungi dal provare un qualunque moto di ribellione contro tale accanimento, infieriva ergendosi a fustigatore: secondo un meccanismo psicologico dalla valenza dirompente, considerare l’altro meritevole del castigo, impedisce pietà ed empatia.
Il fatto che oggi le donne, donne fiere, vittime rinforzate, sopravvissute indomabili, alla ricerca della propria dignità e della condanna di chi cerca di insidiarla, usino l’accostamento maiale–lussuria lascia basiti: conoscenze, o meglio ignoranze etologiche a parte, nessun movimento può condurre una battaglia per i propri diritti calpestando ferocemente quelli di altri, che sono sempre ancora un po’ più deboli: e il primo diritto è quello al rispetto. La strada per la consapevolezza è lunghissima, è evidente; nel percorso non è però tollerabile che i più torturati, dileggiati, oppressi tra gli animali debbano prendere su di sé il peso e la condanna di delitti altrui: perché l’ulteriore diffamazione di cui sono oggetto non farà che ricacciarli ancora un po’ più giù nella scala dei diritti, il cui fondo non sembra mai raggiunto. Il modello così proposto si allontana da quello rispettoso, ugualitario, pacifico per riproporre quello abusato di carnefice e vittima, in cui dietro l’obiettivo consapevole di porre riparo all’ingiustizia si intravede una per quanto inconscia accettazione dei rapporti di potere. Tutto questo non fa che confermare che nessuna visione della vita che non contenga al proprio interno gli altri animali non può che essere parziale e ingiusta nel momento stesso in cui si ferma ai confini illusori dell’umano. E con colpevole dimenticanza ignora il ruolo che le donne individualmente e politicamente hanno rivestito nella storia passata e recente nel farsi carico della questione animale, che hanno accostato a quella femminile, in nome della loro empatia, dei loro convincimenti, della loro capacità, anche, di “sentirsi tutt’uno col dolore degli altri”: lo diceva Rosa Luxembourg che non era Myriam Chalek, dallo strazio del carcere di Bratislava, che non era una passerella di moda di New York City.
Che dire? In questo mondo, scrive un bambino di Napoli sulle pagine di Nessun porco è signorina, gli animali credono che c’è solo l’inferno, perché vivono su questa Terra e non immaginano che c’è anche il paradiso. In paradiso gli parlerò e gli dirò “Scusate se vi abbiamo trattato male”. In attesa di un improbabile paradiso in cui chiedere scuse tardive, è dolce il pensiero di Giancarlo De Cataldo quando si chiede “Chissà se per tutti i piccoli porcellini il grugnito di mamma scrofa è come la voce dell’angelo, chissà come se l’immaginano i maialini, un angelo”. Di certo libero, di sognare, di portarli a correre là dove si gioca.
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psicologa e scrittrice
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