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L'utilizzo di primati per studiare le patologie neuropsichiatriche non può essere considerato accettabile

Mag 4, 2019 | Argomenti, LEAL informa, Vivisezione

LEAL da più di 40 anni si batte per l’abolizione della vivisezione considerando la pratica aberrante dal punto di vista etico e scientifico; già da decenni sempre più ricercatori e scienziati con grande onestà intellettuale rispetto ai colleghi dichiarano la fallacia della sperimentazione animale.
Riportiamo la dichiarazione della dottoressa Carla Emilia Ramaciotti docente di psichiatria presso l’Università di Pisa.

Io sottoscritta, Carla Emilia Ramacciotti, medico psichiatra, docente presso l’Università di Pisa, dichiaro che l’utilizzo di primati per studiare patologie neuropsichiatriche non possa essere considerato più accettabile per vari motivi.
Premessa
Le scimmie sono gli animali più utilizzati negli esperimenti in ambito neurologico e psicologico: secondo Aisha Akhtar, medico in forze presso la Food and Drug Administration (USA) in qualità di specialista in neurologia, medicina preventiva, biosorveglianza e controllo sull’efficacia e la sicurezza dei farmaci, questo è dovuto al fatto che si crede, ancora oggi, a una spiccata analogia fra il loro apparato neurologico e quello umano, rispetto a tutte le altre specie animali. Ma, in realtà, quanto sono simili scimmie e uomini da questo punto di vista? L’architettura e la fisiologia del cervello umano sono molto più complesse di quelle dei primati. Un indice affidabile di questa affermazione potrebbe essere il tempo che impiega a svilupparsi, nella sua fase di maggiore crescita, il cervello: 136 giorni nelle scimmie, 470 giorni nell’uomo. Vediamo di seguito soltanto alcuni esempi di quanto siano diverse la neuroanatomia e la neurofisiologia dei due organismi:
– la corteccia cerebrale umana ha una superficie più vasta di 10 volte rispetto a quella delle scimmie;
– l’area V 1 (corteccia visiva primaria), una delle zone più importanti per la funzione visiva, occupa il 10% rispetto al totale della corteccia cerebrale nella scimmia. Nell’uomo occupa solo il 3%;
– ad aree visuali simili corrispondono funzioni molto diverse nell’uomo e nella scimmia;
– il numero che le sinapsi (connessioni fra neuroni) contraggono tra i neuroni nell’uomo varia fra 7.000 e 10.000. Nel Macaco reso questo numero varia fra 2000 e 6000;
– almeno 91 geni coinvolti nei meccanismi neurofisiologici, si esprime in modo completamente diverso nella scimmia rispetto all’uomo;
– l’uomo possiede aree visuali cerebrali che non esistono per nulla nella scimmia.
Questi sono solo alcuni esempi delle profonde differenze che intercorrono fra l’anatomia delle scimmie e quelle umane. Si potrebbero scrivere decine di pagine sulle differenze della neurofisiologia e della psicologia, portando a supporto una vasta documentazione bibliografica di eminenti ricercatori che concordano sul fatto che la sperimentazione sulle scimmie, al fine di migliorare le conoscenze della neurofisiologia e neuropsicologia nell’uomo, risulta fallimentare e fuorviante. Prendendo in considerazione la specie geneticamente più vicina all’uomo, lo scimpanzé, la cui linea evolutiva si separò dalla nostra 7 milioni di anni fa, la differenza genetica è dell’1-2%, ma è responsabile di una differenza tra le proteine dell’80% (Gene. 2005 Feb 14;346:215-9 “Eighty percent of proteins are different between humans and chimpanzees”. Glazko G, Veeramachaneni V, Nei M, Makałowski W.).
La semplice sequenza della doppia elica è un codice che, se siamo all’oscuro delle interazioni che avvengono tra geni, non ci dice esattamente come la vita si manifesta in quell’individuo, inoltre le divergenze e le convergenze dell’evoluzione fanno sì che uno stesso tratto sia presente in diverse specie, ma con significati biologici diversi e con espressioni geniche che danno origine a prodotti proteici diversi.
Le possibilità offerte oggi dalla diagnostica per immagini (e specificamente dalla neuroimaging) ci consentono, attraverso la Risonanza magnetica funzionale, la PET (Tomografia a positroni) e le sue sofisticate varianti tecnologiche, di registrare l’azione multipla di singoli neuroni. Questo ci offre la straordinaria opportunità di studiare direttamente i correlati neurali di diverse funzioni cerebrali in soggetti umani coscienti che, a differenza degli animali, possono fornire dettagliati resoconti delle loro esperienze e dei loro comportamenti. Inoltre, ai soggetti umani si può chiedere di eseguire un determinato compito e, a parte alcune eccezioni, questo non necessita di prolungati allenamenti come invece accade nel caso degli animali e, nello specifico, delle scimmie. Come prima considerazione vorrei far riflettere sul fatto che è ormai ampiamente dimostrato che le condizioni sperimentali influiscono sulla risposta che si cerca. I primati subiscono molteplici violenze fisiche e psicologiche: dalla cattura alla detenzione negli stabulari, fino alle discutibili pratiche della sperimentazione nei laboratori.
Non c’è branca della ricerca su animali che trascuri di più le condizioni sperimentali di quella sulla psiche. Gli animali sono influenzati ed alterati dalle condizioni sperimentali non solo artificiose, ma lontane dalle abitudini che appartengono alla loro specie. Si sono avute risposte diverse già solamente arricchendo l’habitat dell’animale in cattività!
Chi volesse saperne di più basta che si documenti sulla epigenetica. Le condizioni sperimentali influiscono sull’animale non meno delle sostanze da testare o di altre variabili.
Inoltre le patologie psichiatriche si manifestano a livello comportamentale solo per una parte della sintomatologia che si sviluppa soprattutto a livello cognitivo ed emotivo. Gli animali e i primati in particolare, sono esseri senzienti ma non parlano. Come si può indagare la visione di sé, del mondo e degli altri? Sono esperimenti rozzi, inutili ed eventualmente fuorvianti considerato anche che si dispone di possibilità e tecnologie avanzate e specifiche per valutare l’essere umano sia sano sia affetto da patologia.
Io sostengo, insieme a molti altri colleghi, una ricerca scientifica svolta con metodi rigorosi, validati, avanzati che possa dare un contributo con risposte che la sperimentazione animale non ha dato in più di un secolo e non sarà mai in grado di dare.

 * 

Io sottoscritto, dr. Stefano Cagno, Dirigente Medico Ospedaliero, disciplina Psichiatria, presso l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale di Vimercate (MB), responsabile del C.D. La Casa di Bernareggio (MB), dichiaro che gli esperimenti su animali al fine di studiare le malattie mentali non possiedono alcun valore scientifico, anche quando condotti su specie evolute come i primati non umani.
In ambito psicologico/psichiatrico, l’uso degli animali è particolarmente criticabile, infatti il loro comportamento è facilmente mal interpretabile tanto da ritenere uno stesso modello animale valido per ricerche su diverse patologie. Un esempio per tutti: un animale dopo essere stato sottoposto a shock elettrico ripetuto, ossia sono state date ripetute scariche elettriche, si rifugia in un angolo della gabbia. Questa condizione alcuni la interpretano come un modello di ritiro sociale nella depressione (l’animale è depresso e quindi non vuole più socializzare), altri nella psicosi (l’animale non riesce a socializzare e quindi si manifesta un ritiro autistico), altri ancora nella nevrosi (l’animale evita l’ansia provocata dalla socializzazione). Ovviamente ciascun ricercatore interpreta il sintomo in base alla sua convenienza, ovvero alla patologia su cui sta compiendo la ricerca.
Rispetto agli esperimenti sugli animali in altri ambiti, alle differenze genetiche, e quindi biologiche e biochimiche, si sommano competenze neurolinguistiche assolutamente non paragonabili. Inoltre le condizioni artificiali che i ricercatori creano per realizzare modelli animali di patologie unicamente umane, come la Schizofrenia o il Disturbo Bipolare, se dovessero verificarsi nella nostra specie, secondo il manuale diagnostico universalmente riconosciuto da tutti gli specialisti al mondo (DSM-V) escluderebbero proprio la diagnosi di disturbo mentale (*1)
Chiedo pertanto nella maniera più ferma possibile, che la Svizzera, nota nel mondo per un’oculata gestione delle risorse economiche, non permetta gli esperimenti sui macachi a Zurigo o in qualunque altra città ed ogni tipo di ricerca analoga, poiché rappresentano uno spreco di risorse economiche che andrebbero indirizzate sui modelli di ricerca tecnologicamente avanzati.
(*1) Nei modelli animali sono spesso usate sostanze chimiche o provocate lesioni cerebrali per “riprodurre” la Schizofrenia, ad esempio Schmajuk propone di lesionare l’ippocampo, mentre Lillrank, Lipska e Weinberger crearono danni eccitotossici nell’ippocampo di animali neonati. I manuali diagnostici (tra cui il DSM-V) stabiliscono invece che per porre diagnosi di Schizofrenia occorre che il paziente non abbia assunto sostanze e che non vi siano condizioni mediche (come traumi cranici) in grado di giustificare la sintomatologia. Sempre nel DSM-V è stabilito che per porre diagnosi di Schizofrenia devono essere presenti almeno due dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (vale a dire appiattimento affettivo, alogia, abulia) e contemporaneamente deve verificarsi uno scadimento delle funzioni sociali/lavorative.
La maggior parte dei sintomi qui presenti non sono riproducibili su animali nemmeno in maniera grossolana (soprattutto per l’assenza del linguaggio).

→ Fonte rivista Orizzonti (pdf)


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