MARI SENZA PESCI ENTRO IL 2050. È l’allarme lanciato dall’ONU in occasione di un convegno organizzato dalla Ocean Sanctuary Alliance, una partnership di Paesi tra i quali Italia, Bahamas, Polonia, Palau, Maldive, Australia, Olanda e Israele, che ha lo scopo di garantire l’impegno delle nazioni per arrivare a conservare e usare sostenibilmente mari e oceani e le risorse marine.
La pesca industriale oltre al danno diretto contribuisce per il 19% ad un’altra piaga in termini di inquinamento: l’itticoltura. Esistono due tipi di allevamenti ittici, equiparabili ed identici a quelli intensivi ed estensivi terrestri: quelli in vasca oppure offshore. Nei primi, posizionati sulla terra ferma, si allevano principalmente trote, orate, spigole (branzini nome culinario) e salmoni. I secondi sono posizionati a poche miglia dalle coste marine. Entrambi rilasciano altissime concentrazioni derivate dagli scarti di produzione come sali azotati, fosforo e nitrati. Queste sostanze provocano anossia e abnormi esplosioni di fioriture algari (eutrofizzazione) privando gli abitanti marini dell’ossigeno e rilasciando tossine algari (dinoflagellati). L’acidificazione delle acque è un altro fattore importante ed è collegato all’assorbimento della CO2, indebolisce la struttura portante del corallo e altera l’equilibrio olfattivo tra prede e predatori.
Anche i tanto richiesti gamberetti creano gravi problemi di sostenibilità dell’ambiente e il loro allevamento intensivo sta portando Paesi come Bangladesh, Vietnam, Thailandia, Filippine, Ecuador e Brasile in emergenza ambientale e sociale: le foreste di mangrovie che riparano le coste dalle mareggiate con le radici aeree e costituiscono un importantissimo habitat per tutte le specie marine allo stadio giovanile in quanto trovano riparo e cibo nella foresta stessa, vengono distrutte per ricavarne vasche nel terreno destinate agli allevamenti dei crostacei in generale.
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