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LEAL ANIMALISMO: TUTTA COLPA DELLA NUTRIA

Lug 13, 2020 | Argomenti, LEAL informa, Vivere eticamente

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.

Le nutrie, dal 23 luglio 2014, non sono più specie protetta, come lo erano state fino al giorno prima, ma, potenza del linguaggio e della legge, sono diventate specie nociva; in quanto tale, possono essere “eradicate”, soggette a “prelievo venatorio”: in altri termini giustiziate sul posto da solerti cacciatori, o, in alternativa, catturate con uso di gabbie e, una volta lì dentro, colpite a fucilate o “gasate”.

Non molte persone sanno un gran che delle nutrie; o meglio non molti connettono questo nome con quello ben più familiare di castorino, familiare perché fino a non molti anni fa era quello delle pelliccette che molte donne portavano, potendosele permettere perché non eccessivamente costose e perché l’idea che provenissero da un animale, imprigionato per tutta la vita prima di essere ucciso in modi crudelissimi, restava nascosta nei meandri della rimozione. E se poi da lì fuoriusciva, i tempi erano tali per cui si riusciva a convivere con la palese ingiustizia senza particolari sensi di colpa: animalismo e antispecismo, con tutto il loro carico di nuove consapevolezze e di conseguenti responsabilità, erano tutti ancora da venire. Mentre le mode dettavano i comportamenti e incidevano sulle scelte, i castorini, insieme a tanti altri, ne pagavano il prezzo, senza che ci si curasse di sapere nulla di loro, di sapere per esempio che erano stati fatti venire da lontano, dal Sud America, perché, vegetariani quali sono, si nutrono di arbusti e servivano quindi anche allo scopo secondario di bonificare le paludi. Quando nuovi gusti li hanno messi all’angolo e fatti giudicare di troppo, sono stati serenamente liberati sul territorio vicino a corsi d’acqua con il nuovo nome di nutrie e hanno cominciato a riprodursi nel disinteresse generale, fino a quando vari disastri ecologici e danni ambientali, frutto di negligenze e cattive politiche del tutto umane, hanno visto in loro l’ideale capro espiatorio dei mali in corso. Tutta colpa della nutria! Dagli all’untore! Sterminiamole tutte! E così, non facciamoci mancare nulla, si è deciso di procedere alla loro uccisione a fucilate; ghiotta occasione per un po’ di sport supplementare per i cacciatori, che in molti casi si sono visti omaggiare cartucce per decine di migliaia di euro, e grande sgomitare da parte dei sindaci per vedere il proprio comune accolto tra gli eletti con licenza di uccidere.
L’ecatombe è ormai in atto da anni sul territorio nazionale, con centinaia di migliaia, forse milioni, di individui uccisi: secondo le prime cronache, poi tacitate, tra questi ci sono anche quelli che, sfuggiti alla furia dei fucili, sono stati abbattuti a badilate, senza scandalo.
Il tutto è stato reso possibile grazie all’efficacia dello schema regolarmente seguito in occasione di ogni carneficina, umana o nonumana che sia: è essenziale, come prima mossa, costruire le condizioni di base, vale a dire la propaganda secondo cui ci si trova davanti ad una seria minaccia, fonte di un male inaccettabile. Ce lo hanno bene insegnato i conflitti di ogni epoca, dall’antichità ai giorni nostri, che vedono l’odio artatamente sollevato da una propaganda che ne costituisce l’imprescindibile punto di partenza. Anche per bruciare le streghe, gentile pratica protrattasi per secoli nella illuminata Europa, era stato necessario convincere la gente di quali malefici fossero responsabili quelle donne, creature di Satana capaci di ogni malvagità. Così la nutria, nella narrazione, è diventata pericolosa, perché “nociva”, e, in quanto tale, meritevole di morte. Narrazione in rotta di collisione con la posizione nel frattempo assunta dall’animale, le cui reali caratteristiche di docilità, simpatia, socialità ne avevano fatto il beniamino di molti. Si è dovuto quindi lavorare sulla sua rappresentazione quale essere pericoloso, dannoso, da perseguitare: operazione il cui successo è stato reso possibile dalla diffusa deresponsabilizzazione e dall’altrettanto diffuso ossequio all’autorità, dinamiche tanto comuni tra gli umani, che non amano sentirsi in colpa e nemmeno essere angustiati da pensieri molesti: sono altri i responsabili di quello che succede e comunque per fortuna che c’è la rimozione, che ci permette di non pensarci.
Il consenso alla sua eliminazione è stato così assicurato e gli esecutori eretti al rango di meritevoli operatori al servizio del benessere comune.
Niente di originale se si pensa ad una situazione per certi versi del tutto analoga dall’altra pare del mondo: in Australia (è la sociologa Nik Taylor a raccontarlo) i rospi, ritenuti una sorta di peste ecologica a causa del loro proliferare, tempo fa sono diventati oggetto di una campagna che invita la popolazione ad ucciderli “nel modo più umano possibile”, ma i “modi umani”, ahimè per i rospi, non sono alla portata di tutti, e quindi il governo ha corretto il tiro accontentandosi per la mattanza di metodi “facilmente acquisibili ed accettabili”. Di adattamento in adattamento, il risultato è che molti ragazzi li attaccano con le loro mazze, usandoli come sostituto della palla da cricket o da golf, a mo’ di allenamento per lo “swing” (vale a dire per far alzare la palla verso l’obiettivo) sentendosene autorizzati dalla stessa rappresentazione degli animaletti come dannosi e nocivi, il che crea consenso intorno al loro pur orrido agire, che non viene stigmatizzato in quanto, al netto di noiosissime considerazioni etiche, è considerato un atto socialmente utile.
Persino superfluo disquisire sull’ottica squisitamente antropocentrica che è il denominatore comune di queste situazioni: degli animali nonumani si fa ciò che è utile, ma anche solo preferibile, per gli umani, che hanno su di loro incontrastato diritto di vita e di morte, sulla base di considerazioni di pura convenienza.
Un altro elemento è di grande rilevanza: e le analisi di Andrèe Girard sono al proposito illuminanti: nel corso della storia è sempre esistito il capro espiatorio, vittima su cui far confluire l’aggressività dilagante, vittima scelta in virtù della sua debolezza, mancanza di tutele, incapacità a vendicarsi. Chi più e meglio degli animali può assumere su di sé questo ruolo e quindi la responsabilità degli errori e delle nefandezze umane, espiare le colpe dei colpevoli al posto loro, attirare su di sé l’aggressività che viene così distolta dal consesso umano? E tra gli animali sono quelli più gentili le vittime ideali: dopo la loro mattanza, scaricata la propria aggressività, gli uomini, sempre tanto animosi gli uni contro gli altri, godono di qualche sprazzo di tranquillità, per una volta in solidale compiaciuta compagnia dei propri conspecifici.

Ancora: per contrastare il numero delle nutrie

giudicato eccessivo, sarebbero possibili interventi di contraccezione, come dimostrano le iniziative della Regione Piemonte, oppure organizzare spostamenti di massa. Decidere di non mettere a punto altre soluzioni quindi induce ad interrogarsi sui motivi, sulle spinte di base, che l’hanno determinata: e la risposta non può non fare riferimento a posizioni riferite alla violenza, alla sua accettazione e spesso gradimento nell’esercitarla contro le centinaia di migliaia di “esemplari” uccisi a sangue freddo. Lecito interrogarsi su chi siano quegli individui pronti ad ammazzare a catena di montaggio animali indifesi, terrorizzati, che sbatteranno contro le pareti delle loro gabbiette in cerca di una impossibile via di fuga. Lecito interrogarsi sui “dilettanti”, vale a dire quei “volontari” a cui alcune regioni hanno fatto riferimento, che evidentemente sono lieti di accorrere a compiere il lavoro che non considerano affatto sporco; e sui professionisti, che sono i cacciatori, che nei loro siti non mancano di esprimere entusiasmo per il nuovo spazio offerto alla loro brama di uccidere, fonte di dirompente eccitazione. Nessuno di loro pare sentire nelle proprie corde l’eco di quella empatia per l’altro, per il suo dolore, che è la base di rapporti non violenti e cemento per relazioni che non siano di prevaricazione. Quale annichilimento della solidarietà e del senso di giustizia alimenti il senso di onnipotenza che ogni volta accompagna l’uccisione di qualsiasi essere vivente e senziente dovrebbe essere oggetto di preoccupazione per le autorità, che invece, con le loro scelte, lo legittimano e lo incentivano.
Un’ultima osservazione: tutto ha luogo in territori pubblici, e può succedere che ci siano anche bambini e ragazzini tra gli involontari spettatori. Essendo ormai del tutto assodato che la violenza sugli animali è connessa con un link innegabile a quella contro gli esseri umani e che tante radici del futuro agire sono poste negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, rendere i più giovani testimoni di mattanze che, alla faccia di qualsiasi eufemismo ideato per misconoscerle, sono innegabilmente tali, carica di responsabilità le autorità: anche se non lo capiscono.
Le nutrie italiane e i rospi australiani, di certo come tante altre specie democraticamente sparse in tutti i posti del mondo, nulla sanno di tutto ciò e, mentre vengono imprigionate, ferite, uccise, avranno magari il tempo di chiedersene la ragione, ma non certamente la possibilità di trovarla tra quelle accettabili: perché lì non c’è.
“Sono contro la debolezza umana e a favore della forza che le povere bestie ci dimostrano tutti i giorni perdonandoci” diceva Anna Maria Ortese: dell’insensatezza di quel perdono immagino anche le nutrie abbiano preso atto.

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