Linda Guerra
Naturalista, etologa
Del valore ecologico della foresta amazzonica per tutti i servizi ecosistemici che offre, oltre
all’incommensurabile bellezza della enorme varietà delle specie viventi che ospita, si sono scritti
fiumi di parole, e altrettanti ne sono stati usati per descrivere i danni ingenti ad essa provocati dalle
azioni umane, fra cui il disboscamento, l’inquinamento e il prelievo sistematico di risorse.
L’Amazzonia costituisce il secondo maggiore polmone del pianeta, mentre il primo è rappresentato
dal fitoplancton. La biodiversità caratteristica delle foreste pluviali non ha eguali ad altre latitudini
in altri ecosistemi, soprattutto per quanto riguarda le specie endemiche (ad esempio il tamarino
calvo del Rio delle Amazzoni) e le cosiddette specie ombrello, ovvero quelle forme di vita animali o
vegetali dalla cui presenza dipende imprescindibilmente l’esistenza di tante altre specie, magari
meno iconiche ma altrettanto rilevanti per mantenere in buono stato di salute e in equilibrio la rete
della vita. Uno dei più gravi errori commessi dall’uomo è quello di non considerare
l’interdipendenza fra tutti i viventi, di vivere secondo una visione biocentrica considerando gli altri
esseri senzienti in funzione dei benefici che può ricavarne a vari livelli senza riconoscere ad essi un
valore intrinseco.
Le cause di devastazione delle foreste pluviali (in particolare Amazzonia, lndonesia e centro Africa)
sono molteplici, diverse associazioni ambientaliste quali Rainforest Action Network e Amazon
Watch menzionano l’olio di palma, la carta e la cellulosa, il carbone, le sabbie bituminose e i grandi
progetti come miniere e dighe. Ma spesso non nominano gli allevamenti industriali, che sono la
prima causa di distruzione in particolare dell’Amazzonia, in quanto il 91% dei territori disboscati
vengono convertiti in allevamenti estensivi e in coltivazioni di soia transgenica trasformata in
mangimi per le mucche. In 40 anni è scomparso il 20% della foresta amazzonica (dato del 2012),
ogni minuto vengono abbattuti 4047 m², mentre ogni giorno si perdono circa 100 specie di animali e
piante talvolta ancora prima che siano scoperti. Molti non parlano dell’impatto disastroso degli
allevamenti per non esporsi al rischio di essere uccisi, come è accaduto a più di 1100 attivisti in
Brasile in 20 anni, gli ultimi dei quali sono stati Bruno Pereira e Dom Phillips, il 5 Giugno, mentre
stavano indagando sulla pesca illegale. Nel 2019 in particolare vi è stata una successione di 74155
incendi successivi alla data del 20 Agosto, con un incremento dell’83% rispetto a quelli avvenuti
nello stesso periodo nel 2018. Essi vengono appiccati da contadini e allevatori che praticano il
debbio, ovvero l’agricoltura “taglia e brucia”. Il record purtroppo è stato raggiunto nella prima metà
di quest’anno, con oltre 4000 km² perduti. Il cuore dell’Amazzonia costituisce un prezioso hotspot
per la biodiversità, con 427 specie di mammiferi, 1300 di uccelli, 378 di rettili e più di 400 di anfibi.
Ci sono alcuni dati timidamente confortanti, fra cui una maggiore consapevolezza e
sensibilizzazione a livello locale dell’importanza di preservare la foresta e i suoi abitanti non umani,
ad esempio il caso dell’arapaima o piracuru, un pesce simbolo della natura amazzonica, che da
alcuni anni è protetto mentre prima veniva pescato ed era stato portato al rischio di estinzione. Già
dal 2019 diversi scienziati sono preoccupati dal possibile effetto chiamato “forest dieback”, un
punto di non ritorno, un processo di autodistruzione che porterebbe l’Amazzonia a diventare essa
stessa un acceleratore del riscaldamento globale. In sintesi: i miliardi di alberi in essa presenti
catturano l’acqua dalle precipitazioni e dal suolo, poi la liberano in atmosfera sotto forma di vapore
acqueo, che si condensa nelle nuvole tornando alla terra sotto forma di pioggia. Diminuendo
progressivamente il numero di alberi a causa degli incendi e degli abbattimenti, calerà anche la
quantità di vapore acqueo e quindi di precipitazioni periodiche. Pertanto il suolo diventerà più secco
e gli incendi bruceranno zone più estese e più in profondità. Oltre una certa soglia chiamata
appunto “forest dieback”, l’Amazzonia non riuscirà più a produrre abbastanza pioggia per poter
sopravvivere e gli alberi inizieranno a degradarsi e a morire da soli. (A questo proposito è utile
ricordare che Masanobu Fukuoka, pioniere dell’agricoltura naturale, osservando un deserto
americano ha compreso che la pioggia non viene dal cielo bensì sale dalla terra). Gli alberi
dell’Amazzonia immagazzinano circa 100 miliardi di tonnellate di carbonio nel legno interno come
scarto fra l’anidride carbonica assorbita attraverso la fotosintesi clorofilliana e quella emessa con la
respirazione (in minore quantità), il 17% di tutti gli alberi del pianeta. Alcuni scienziati stimano che
entro il 2050 gli alberi morti potrebbero arrivare ad essere così tanti da rilasciare nell’atmosfera più
carbonio di quello che catturano.
LEAL PER GLI ANIMALI E PER L’AMBIENTE