VIETATO FRUSTARE I CAVALLI: si, ma tranquilli: solo a Castello di Montechiarugolo. Si tratta del titolo di un articolo del Corriere della Sera (14 luglio 2017), che si riferisce ad una realtà ad oggi anomala nel panorama ippico, italiano e non, non ad una legge, ma ad una iniziativa limitata all’ippodromo dell’Appennino emiliano, dove i responsabili hanno per la prima volta in Italia imposto il divieto di cui si parla, e a pochissime altre manifestazioni. Per la cronaca, esiste un solo precedente fuori dai confini nazionali e riguarda la Norvegia.
La notizia ha uno spessore che travalica la sorte dei singoli cavalli i quali, quando avranno la ventura di correre a Montechiarugolo, non potranno che stupirsi nel non essere fustigati, contratti e spaventati come saranno, perché l’attesa delle usuali scudisciate è essa stessa tormento, nell’impossibilità a sottrarvisi, e perché non esiste comportamento che li metta al riparo: non è castigo ad una mancanza, a cui potrebbero imparare a sopperire, ma sorte ineluttabile; perché chi colpisce, e i cavalli non sanno quando e quanto forte, punisce un peccato non commesso.
Come è il veganesimo a illuminare il carnismo, vale a dire non si prende atto della relatività di una scelta fino a quando si viene posti davanti alla prova provata della possibilità di una scelta di segno opposto, allo stesso modo il divieto di colpire i cavalli induce a giudicare in modo diverso l’abitudine a frustare, talmente diffusa nel mondo dell’ippica da non fare notizia, da passare inosservata. La frusta è considerata un accessorio obbligato dell’abbigliamento di ogni fantino, non tanto diversa da stivali e berretto; trasformata addirittura in oggetto elegante, tanto che l’industria ne offre di tutti i generi e di tutti i tipi, con graziosi manici antiscivolo, di alta qualità ma anche in versione economica per porli democraticamente alla portata del portafoglio di chiunque. I modelli sono sempre più evoluti, perché l’origine è antica, ma i tempi richiedono prestazioni più adeguate, vale a dire devono consentire di fare del male al punto giusto e con la raffinatezza che gli stilisti del settore, esonerati anche loro da considerazioni etiche, rendono possibile. Le fruste per altro possono anche alternarsi ai nerbi di bue (o ai nerbi fatti con il pene di toro! ), come si fa per il Palio di Siena: niente di nuovo; in fondo anche la Gestapo li aveva in dotazione, e, se le notizie della rete sono esatte, in qualche stato centro e sudamericano, quali Guatemala e Colombia, normalmente non citati tra i campioni del rispetto per i diritti umani, l’uso è anche destinato a sedare riottosità domestiche. La frusta è appendice all’equipaggiamento ippico persino di bambini alle prime armi (mai espressione fu più centrata): gliela si consegna, certo di dimensioni adeguate alle loro manine, non appena si avvicinano all’equitazione, così li si fanno sentire orgogliosi e anche (pre)potenti perché percepiscono trattarsi di uno strumento in grado di conferire uno status, uno status dominante: conferisce un senso di forza e importanza, con la benedizione di mamma e papà.
Ecco, la decisione presa a Montechiarugolo poggia sulla convinzione che uno strumento di costrizione non può essere considerato normale, naturale e necessario, non deve essere regolamentato, ma proibito perché crudele. L’input a questa visione delle cose, racconta Lorenzo Morini (uno dei gestori dell’ippodromo, che da due anni si batte per un disegno di legge che ne bandisca definitivamente l’uso), è nato nell’osservare la reazione dei bambini che, a lato delle piste, si rifiutavano di guardare: “Un cavallo picchiato in continuazione non è un bello spettacolo”, dice. Non si può che concordare con lui e contestualmente, pur nella soddisfazione per l’insight cognitivo, chiedersi come ad oggi, pressoché dovunque, lo si consideri invece proprio un bello spettacolo, uno di quelli da incitare con urla entusiastiche, da osservare con il cannocchiale per non perdersi i particolari.
Quella dei cavalli frustati è realtà, norma, spettacolo: incapace di urtare la sensibilità di scommettitori obnubilati da puntate rovinose, ma neppure spettatori bighellonanti nell’ozio domenicale, e tanto meno gentili signore e signorine in guanti bianchi e cappellini d’ordinanza sui prati inglesi o decisamente più casual su quelli di altri paesi. Infierire su animali impossibilitati a difendersi, frustandoli a dismisura, è ancora oggi non spettacolo per persone rudi e rovinate dal vizio, ma sport of the kings: regale, illustre, nobile.
Ancora una volta è la narrazione a farla da padrona: la realtà, che è sotto gli occhi di tutti, viene mistificata, diversamente raccontata, inserita in altra cornice cognitiva. Nella retorica giornalistica e nella percezione del pubblico, i cavalli non corrono perché, fustigati, tentano disperatamente di sottrarsi al dolore, ma sono purosangue (ma mezzosangue, fa lo stesso) slanciati verso un trionfo da loro stessi ambito; morsi, paraocchi, briglie, redini, speroni non sono stigmatizzabili mezzi di contenzione e tortura, ma trasparenti, invisibili accessori d’ordinanza. Qualcosa non torna: o meglio, torna solo in riferimento a quei meccanismi di cui la nostra mente sa servirsi così bene al fine di proteggerci nel nostro quieto vivere.
L’idea che ci facciamo delle cose non è frutto della realtà percepita, qui ed ora; si forma invece e poi si sedimenta sulle convinzioni del contesto culturale di appartenenza, per distorte che siano. Aderiamo alle idee, ai modi di vedere che sono quelli del nostro ambiente o gruppo sociale, lo facciamo senza accendere la capacità di critica, attraverso i pre-giudizi, aderendo acriticamente all’interpretazione e alla codificazione della realtà che altri hanno dato prima di noi e che si è diffusa come fosse verità. Siamo convinti di avere un punto di vista e invece lo confondiamo con lo stato delle cose, con il punto di vista della maggioranza che ci influenza e dirige i nostri comportamenti verso quella che è una norma condivisa. Insomma, vogliamo essere rassicurati che tutto vada bene, che il mondo in cui viviamo è giusto, e così ci muoviamo avvolti nella cortina fumogena delle idee che sono dominanti nel contesto in cui viviamo. Si tratta di meccanismi potenti e prepotenti, tali da indurre una mistificazione della realtà altrimenti inspiegabile.
Nulla però è statico: dal magma in movimento in cui ci sentiamo protetti, qualcosa sfugge, è una pulsione verso la verità, verso la de-mistificazione, la de-costruzione della falsificazione in atto. Il demiurgo prende le sembianze del rivoluzionario di turno, spinto a rivoltare il mondo dall’urgenza di verità e giustizia, ma anche solo del riformatore, che si materializza spesso grazie ad un clima culturale circostante in evoluzione, all’interno del quale alcuni comportamenti appaiono del tutto anacronistici, distonici rispetto a nuovi pensieri e nuove sensibilità. Nello specifico della situazione in oggetto, il divieto di frustare i cavalli è una proposta timida, non è un cambiamento epocale, figlio di un’esigenza profonda di rispetto verso animali sfruttati e del desiderio di rendere loro la dignità: se così fosse, saremmo qui a parlare della fine stessa delle corse: tout court. È comunque un imprescindibile iniziale passo che prende l’avvio dalla consapevolezza della attuale diffusa connivenza con un mondo costruito su intollerabili forme di sfruttamento e crudeltà.
È interessante anche che l’input a tale demistificazione sia arrivato, come ha testimoniato Lorenzo Morini, dall’atteggiamento di insofferenza dei bambini all’infierire degli uomini sui cavalli: non ancora coinvolti nel processo di mistificazione, loro sì che possono giudicare la realtà con i propri occhi, dare diritto di cittadinanza a sensazioni ed emozioni, e molto banalmente considerare insopportabile che i cavalli vengano frustati: giusto in tempo, prima che subentri l’incorporazione del loro pensiero in quello dominante. Apprezzabile ci sia stato chi, osservandoli, ha colto e accolto il loro messaggio, dando il via ad un processo di demistificazione di una semplicità disarmante: le frustate fanno male, le frustate sono crudeli, le frustate sono ingiuste. Il fatto che siano inferte da sempre, lungi dall’offrire giustificazioni, è se mai atto di accusa potente nei confronti della nostra specie, che, come con infinite altre nefandezze, ci convive non da secoli, ma da millenni, imperturbabile davanti alla sua realtà, e anche alla sua rappresentazione: persino Ben Hur, che dagli schermi del colosso cinematografico del 1959 fustigava forsennatamente i cavalli della sua quadriga per dodici interminabili minuti, ha riscosso entusiasmo filmico per il suo altissimo tasso spettacolare, meritevole di undici Oscar, ma non risulta abbia suscitato nessuno sdegno che fosse ante litteram “animalista”.
Infierire sui cavalli è azione ripugnante, è causa del loro inascoltato dolore. Ma è anche altro: l’abitudine alla violenza comporta desensibilizzazione, assuefazione e dipendenza: l’autorizzazione, anzi il diktat all’uso della frusta per addestrarli, ridurli all’obbedienza, spingerli oltre i loro limiti, è talmente intrusivo nelle abitudini dei perpetratori, che finisce per abbattere i freni inibitori, si autoalimenta, si espande, dilaga. La dinamica è attestata dal fatto che è stato necessario introdurre normative, per porre limiti esterni, in drammatica assenza di quelli interni, psicologici e morali, in sintonia con il clima culturale di ogni contesto: secondo una regolamentazione, il cui cinismo si commenta da solo, Italia, Inghilterra, Germania consentono che siano inferti ad un cavallo 7 colpi di frusta ogni 500 metri; la Francia, più comprensiva, ne ammette 10; Usa e Giappone, campioni di libertà civili, si affidano alla libera iniziativa personale e non pongono limite al libero sfogo degli impulsi umani, senza remore né fastidiosi deterrenti legali. Le limitazioni sono in genere mal sopportate e non mancano certo infrazioni, anche illustri: un fantino di grande fama, Frankie Dettori, nel 2007 aveva un po’ esagerato ed è stato punito (tranquilli: 14 giorni di sospensione e poi tutto come prima) per avere inflitto la bellezza di 25 frustate al “suo” cavallo, quello che amava tanto, reo di non correre come lui voleva: un po’ troppe per i severi giudici, non per lui, che, intervistato, ha sostenuto avere fatto ciò che era giusto, con colpi che travalicavano anche il limite del braccio che non avrebbe dovuto alzarsi oltre la spalla, per limitarne la violenza. Bazzecole, incapaci di modificare le sue radicate convinzioni. Che dire? Successive condanne allo stesso Dettori per uso di coca qualcosa dicono rispetto al suo controllo degli impulsi.
Neppure una leggenda dell’ippica, quale Varenne, forte di un mito mondiale costruito sui suoi successi, ha potuto sottrarsi alle frustate: quando età, stanchezza, sfiancatezza gli hanno fatto correre una corsa deludente, beh come poteva mai reagire il suo driver Giampaolo Minucci se non frustandolo? Certo, finché le cose erano andate bene, se ne era astenuto, ma insomma, un po’ di comprensione: quando ci vuole ci vuole. Beninteso nei limiti legali.
Un pensiero immenso, per concludere, a Tornasol, il cavallo che in diretta televisiva ha detto NO all’imposizione di correre, lì sulla mitica Piazza del Campo di Siena, dove, sotto il sole cocente del 2 di luglio, per 90 interminabili minuti teletrasmessi ha opposto la sua determinata opposizione al volere umano: a Trecciolino, il suo fantino (al secolo Luigi Bruschelli, per altro attualmente sotto inchiesta per maltrattamenti) che, incredulo, agitava il suo nerbo (di ordinanza appunto), ha risposto con sgroppate e sbuffi, e ha mostrato ad un’Italia basita la rappresentazione equina della disobbedienza civile, non violenta, ma decisa e vincente. Bello e orgoglioso, anzi no: bella e orgogliosa perché Tornasol è una femmina, ha semplicemente e coraggiosamente detto NO. E quale che sia stata la spinta che l’ha indotta a tanto, è assurta ad eroina, paladina degli oppressi della sua specie, fiera . I veterinari, che, esausti, hanno alla fine diagnosticato un “alterato stato fisico” nonché “attacchi di panico”, tanto ricordano quegli psichiatri che, in tempi non così lontani hanno racchiuso, prima ancora che nelle camicie di forza, in una diagnosi svilente la ribellione di tanti infelici ad uno stato delle cose intollerabile. Onore a Tornasol, allora, e a tutti coloro che imboccano strade che gli altri non sanno neppure vedere.
www.annamariamanzoni.it
psicologa e scrittrice
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