L’ILLUSIONE DELLA COMUNICAZIONE DEI LABORATORI DI RICERCA CON ANIMALI

L’ILLUSIONE DELLA COMUNICAZIONE DEI LABORATORI DI RICERCA CON ANIMALI

La propaganda dei media sulle notizie scientifiche: scoperte mediche sensazionali, peccato che si dimentichino di dichiarare che riguardano i topi 

Manuela Cassotta, Biologa, Medical writer

Leggere un resoconto di un nuovo straordinario trattamento medico, attirati da un titolo emozionante, solo per scoprire, dopo alcuni paragrafi, che i risultati riguardano i roditori e non l’uomo. Nella migliore delle ipotesi può essere fastidioso e nel peggiore dei casi può suscitare false speranze per i pazienti e le loro famiglie, facendo intendere tra le righe che quanto scoperto nei topi sia con grande probabilità vero anche per noi. Un nuovo studio, atteso da tempo, individua una fonte di questo comune errore di omissione: omettere i topi nei titoli degli articoli scientifici a cui i media si ispirano.

La colpa è di una reazione a catena di comunicazione distorta, che può verificarsi a vari livelli.

Omettere di menzionare chiaramente in un articolo scientifico che un esperimento è stato fatto su animali non umani può riverberare come un comunicato stampa e quindi echeggiare nei resoconti dei media, nei tweet e nei meme. Oppure, il titolo di un comunicato stampa o di un quotidiano o il suo contenuto possono omettere di menzionare i topi, anche se l’articolo sulla rivista scientifica li menziona.

Molti giornalisti scientifici traggono spunto dalle decine di comunicati stampa pubblicati quotidianamente su Eurekalert.org, da istituzioni e aziende di tutto il mondo. E alcune versioni menzionano i topi solo in alcuni paragrafi o per niente.

La popolarità derivante da titoli che non menzionavano gli animali nonostante gli studi in questione riguardassero unicamente animali, mi ha sempre infastidito. Purtroppo non si tratta soltanto di titoli di quotidiani o riviste non tecniche ma spesso anche di pubblicazioni scientifiche soggette a revisione paritaria: quando effettuo ricerche bibliografiche su Pubmed noto che molti studi su animali non menzionano gli organismi modello utilizzati, non soltanto nel titolo ma a volte nemmeno nel sommario. 

Quindi mi ha fatto molto piacere leggere, in un articolo scientifico e poi in un comunicato stampa di Biomed21, che la dott. Marcia Triunfol della Humane Society International di Washington, e dott. Fabio Gouveia della Fondazione Oswaldo Cruz di Rio de Janeiro hanno indagato se la menzione dei topi nei titoli dei comunicati stampa smorzi la copertura mediatica.

I risultati descritti nell’articolo “Cosa viene omesso nei titoli delle notizie o nei titoli degli articoli sulla malattia di Alzheimer? #NeiTopi”, pubblicato su PLOS Biology, non sorprendono: quando il titolo di un articolo scientifico omette la connessione con i roditori, i giornalisti che riprendono l’articolo tendono a fare lo stesso.

Nessun ricercatore con cognizione di causa proporrebbe mai un’idea basata solo sullo studio di topi e ratti a Medscape o MedPage Today, i cui lettori sono medici. E non includerebbe tali studi nel proprio libro di testo di genetica umana, vorrei sperare. Un topo non è un piccolo umano e gli studi sugli animali potrebbero essere utili solo a livello meccanicistico, in un ottica riduzionista, cosa che poteva essere forse giustificata 50-100 anni fa, quando non esistevano né le tecnologie attuali né le conoscenze sulla biologia molecolare, la regolazione genica e l’epigenetica.  La corrispondenza tra un modello di malattia umana ed un paziente può ridursi a un singolo gene. Secondo “Why Mouse Matters” su Genome.gov del NIH, “in media, le regioni codificanti le proteine del topo e del genoma umano sono identiche per l’85 percento; alcuni geni sono identici al 99 percento mentre altri sono identici solo al 60 percento”. La regolazione genica presenta differenze sostanziali tra una specie e l’altra e le condizioni innaturali a cui sono sottoposti gli animali di laboratorio, nonché le modalità artificiali di induzione di malattie tipicamente umane, complica ulteriormente le cose.  L’evoluzione ha conservato vaste aree di genomi di mammiferi. Usiamo versioni delle stesse molecole per le stesse cose. Ma anche quando i geni umani vengono scambiati o aggiunti ai genomi dei roditori o delle scimmie, creando creature “umanizzate”, le differenze nello sviluppo influiscono sull’estrapolazione e sull’interpretazione dei risultati sperimentali. Ciò è particolarmente vero per le sindromi che si sviluppano secondo una sequenza temporale precisa, come le malattie genetiche con caratteristici ritardi nello sviluppo o la perdita di tappe fondamentali, e le malattie croniche comuni che emergono e peggiorano nel corso della vita, come il diabete e le malattie cardiovascolari, dipendenti in gran parte da fattori ambientali connessi allo stile di vita e che non potranno mai essere riprodotte efficacemente in un laboratorio. 

L’imperfezione dei modelli animali non è un’idea nuova. Uno studio del 2005, “Of Mice and Men”, di Lloyd Demetrius, pubblicato su EMBO Reports, ha un abstract di una frase: “Quando si tratta di studiare l’invecchiamento e i mezzi per rallentarlo, i topi non sono piccoli umani.”

Demetrius ha esaminato l’uso fuori luogo dei roditori nelle indagini sull’invecchiamento e la restrizione calorica – l’idea che la quasi fame allunga la vita, sostenendo che i diversi tempi di sviluppo dei roditori rispetto agli esseri umani riflettono le differenze nel processo dell’ invecchiamento stesso, e delle risposte metaboliche allo stress. Quindi non sarebbe possibile estrapolare i risultati dai topi che vivono più a lungo perché si nutrono di cavoli rispetto ai compagni che mangiano cibo normale, a persone che fanno scelte dietetiche diverse. 

Considerando l’Alzheimer, lo studio menzionato precedentemente sonda il livello di successo mediatico di un articolo scientifico riguardante studi su modelli animali di Alzheimer, a seconda se nel titolo vengano o meno menzionati i topi. E’stato scelto l’Alzheimer perché è “una condizione esclusivamente umana”, ma per la quale sono stati sviluppati centinaia di modelli murini per sondare risposte fisiologiche specifiche.

I ricercatori hanno analizzato 623 articoli scientifici e controllato la copertura mediatica di questi ultimi. Gli articoli che avevano escluso i topi hanno ricevuto più copertura mediatica e sono stati significativamente più twittati. Gli autori hanno espresso preoccupazione per l’inganno verso pubblico, anche se non intenzionale.

“La maggior parte delle persone legge solo i titoli delle notizie. Se il titolo omette che lo studio sull’Alzheimer è stato condotto sui topi, la maggior parte crede che i risultati dello studio si applichino agli esseri umani, il che non è vero nella stragrande maggioranza dei casi. Oggi sappiamo infatti che oltre il 99% dei risultati ottenuti con gli studi sugli animali per la malattia di Alzheimer non si replicano nell’uomo”, ha affermato la dott. Triunfol nel comunicato stampa.

Gli autori hanno anche richiesto l’applicazione di linee guida e politiche editoriali affinché le riviste scientifiche richiedano che i titoli degli articoli sperimentali identifichino le specie e/o le fonti tissutali utilizzate per la ricerca, se non derivati dall’uomo. 

L’Alzheimer è solo un esempio, ma l’abitudine di non menzionare gli organismi modello utilizzati è diffusissima e non è destinata a scomparire presto. Riporto solo un articolo “La dieta a base vegetale protegge dall’ipertensione, dalla preeclampsia” (per chi vuole cercarlo basta che digiti in google: “Plant-based diet protects from hypertension, preeclampsia”). Bel titolo vero? Ma ecco le prime due frasi: “Una dieta a base vegetale sembra offrire una protezione significativa ai ratti allevati per diventare ipertesi con una dieta ricca di sale, riferiscono gli scienziati. Quando i ratti sono in gravidanza, la dieta a base di cereali integrali protegge anche le madri e la loro prole dalla preeclampsia mortale”.  E questa volta è andata relativamente bene, perché a volte per realizzare che lo studio in questione riguarda gli animali, è necessario arrivare quasi alla fine dell’articolo, o addirittura in alcuni casi andare a controllare la pubblicazione originale, cosa che dubito che un non addetto ai lavori si metta a fare. Ecco l’esempio.

Continueranno ad apparire titoli e notizie sensazionali, forse inavvertitamente, a causa di errori di omissione, risulteranno nei notiziari, nei tweet o meme di Facebook. Quindi per il momento spetta ai lettori rendersi conto che qualora i risultati in questione riguardino topi, ratti, o scimmie, nella stragrande maggioranza dei casi, non saranno applicabili ai pazienti. 

LEAL PER L’ABOLIZIONE DELLA VIVISEZIONE

Siero bovino usato nei laboratori: una tortura su feti a termine e neonati

Siero bovino usato nei laboratori: una tortura su feti a termine e neonati

LA DOTTORESSA MIRTA BAJAMONTE IMPEGNATA SUL FRONTE DELLA RICERCA HUMAN BASED SI UNISCE ALL’INDIGNAZIONE DI LEAL NEI CONFRONTI DI CHI FA SPERIMENTAZIONE SENZA ANIMALI MA NON DICHIARA L’USO DEL SIERO BOVINO.
siero bovino denuncia
I giorni scorsi abbiamo ricordato attraverso i nostri social di una vergognosa e crudele realtà taciuta assieme a tante altre da chi pratica la sperimentazione animale ma che viene purtroppo taciuta anche da chi fa sperimentazione vantandosi di utilizzare metodi alternativi sostitutivi. Ovvero l’utilizzo di siero bovino ricavato da feti di vitelli ancora vivi e senzienti. Riportiamo di seguito la nostra pubblica denuncia che come LEAL Lega Antivivisezionista ci siamo sentiti di fare stigmatizzando i ricercatori che vantando l’utilizzo di metodi sostitutivi alternativi non utilizzano animali ma mantengono l’uso del siero bovino nelle loro ricerche per le quali chiedono e usufruiscono di finanziamenti pubblici.

IL SIERO FETALE È UNO DEI SOTTOPRODOTTI DEL MACELLO
SI TROVA IN UN GRAN NUMERO DI VACCINI ED È USATO ANCHE COME COMPLEMENTO NUTRIENTE PER TUTTE LE COLTURE DI CELLULE EFFETTUATE IN LABORATORIO POICHÉ FAVORISCE LA CRESCITA DELLE CELLULE
Come viene prelevato dalle mucche?
Alcune mucche portate al macello sono gravide (le stime dicono il 20/30%). Dopo essere state abbattute, il loro feto, ancora vivo, è estratto dal loro utero per incisione. Un grosso ago gli viene immesso nel cuore, i cui battiti permettono di prelevare il sangue senza sforzo. Questa puntura cardiaca, considerata estremamente dolorosa, provoca una morte lenta per asfissia. Gli studi hanno dimostrato che anche un feto di 3 mesi ha la predisposizione fisiologica per sentire dolore. La maggior parte dei feti prelevati ha dai 6 ai 9 mesi, ed è in grado di respirare da solo quando l’ossigeno viene a mancare. I feti sono quindi perfettamente consapevoli e provano una grande sofferenza durante la loro lenta agonia. Non dimentichiamo inoltre il dolore che sentono dopo essere stati strappati dalle spoglie della loro madre.
I più grandi produttori di siero sono gli Stati Uniti, l’Argentina, la Nuova Zelanda, l’Australia e la Francia in Europa. Ogni anno sono raccolti nel mondo 800.000 di litri di siero all’anno che equivale ad impiegare circa 2 milioni di feti bovini sottoposti al prelievo del loro siero, e le proiezioni prevedono aumenti nella produzione.
La domanda di siero continua a crescere, motivata dall’aumento delle colture vegetali in vitro, che dovrebbero sostituirsi ai test sugli animali (che ironia). Le istanze europee per lo sviluppo dei metodi alternativi alla vivisezione, hanno firmato una dichiarazione a favore dell’uso di sostituti sintetici ai sieri di origine animale utilizzati per le colture cellulari, riconoscendo la sofferenza e il problema etico dell’uso di siero di vitello fetale.
→ Approfondimento consigliato

La professoressa Mirta Bajamonte ci invia un suo contributo che volentieri pubblichiamo sull’argomento.
In riferimento alla pubblicazione di notizie riguardanti l’uso di siero fetale bovino come additivo di terreni di coltura nei laboratori di ricerca, paradossalmente votati ai metodi alternativi alla sperimentazione animale, sorgono come dovuto dovere da parte di un ricercatore come me, importanti e sottili considerazioni su base scientifica e di pura logica.
Il fatto che dei metodi di ricerca siano “alternativi” alla sperimentazione animale è già una definizione errata perché lasciano spazio al pensare che, in quanto alternativi, la sperimentazione animale ha ragione di esistere su base scientifica, sapendo perfettamente che chi effettua ricerca con metodi diversi dagli animal testing, conosce benissimo la non base scientifica degli stessi.
Pertanto i metodi di ricerca che non sono basati sulla sperimentazione animale, possono essere SOLO E SOLTANTO sostitutivi e NON alternativi, evitando di dare spazio a insenature concettuali basate su ipocrisie opportunistiche di diversa natura, dalla carriera universitaria al business farmaceutico, a dir poco scandaloso, coperto dal benestare delle istituzioni di governo nazionali ed internazionali.
Entrando nel merito dei metodi sostitutivi, e quindi soltanto di ricerca human based, è assoluta follia utilizzare siero fetale di bovino per addizionare terreni di coltura di varia natura: dai laboratori di ricerca di biologia molecolare, a quelli di genetica medica, a quelli di fecondazione assistita umana, dove ancor di più l’uso di siero fetale bovino è pura eresia, visto che il metodo più consono alla specie umana è quello di aggiungere ai terreni di coltura in vitro per gameti ed embrioni umani o il siero autologo della paziente in corso di assistenza o il siero sintetico che rappresenta lo strumento più idoneo per abbattere ogni sorta di variabile scientifica in qualunque studio basato su trial clinici degni di essere chiamati tali nella ricerca human based.
A tal proposito, nell’ambito della mia carriera professionale in ambito di fisiopatologia della riproduzione umana, avendo sempre svolto solo e soltanto ricerca human based, ricordo un episodio vissuto in un congresso dove veniva presentato il metodo di creazione di un nuovo terreno di coltura che sarebbe stato la rivoluzione per alcune tipologie di pazienti infertili affette da alcune patologie che le ponevano in una condizione di estrema difficoltà nel produrre ovociti sotto terapia adeguata per un programma di fecondazione assistita. Per un fatto di prevenzione legale non nomino il terreno di coltura, la casa che lo stava mettendo in produzione, ne tanto meno la collega che si apprestava a presentare la ricerca che avrebbe portato alla creazione del terreno.
Ebbene, in quella occasione fu detto in aula che il terreno studiato ad hoc era stato supplementato da siero fetale bovino per aggiungere principi nutritivi al prodotto al fine di migliorare le “prestazioni in vitro” dei gameti femminili. Scandalizzata, ricordo che fui l’unica ad alzarmi in aula prendendo la parola evidenziando la grande eresia fatta, essendoci la possibilità di utilizzare il siero sintetico prodotto in vitro, che avrebbe simulato perfettamente i componenti del siero umano quali principi nutritivi atti allo scopo.
E precisai anche che l’uso eventuale del siero omologo della paziente sottoposto a studio non andava considerato come alternativa, perché nell’ambito di una casistica di studio, sarebbe stata una forte variabile in termini di dati statistici scientificamente significativi per interpretare i dati scientifici estrapolati alla fine della ricerca. Ricordo benissimo che la risposta ricevuta fu nei termini di dimenticanza procedurale.
Cosa dire alla fine di tali considerazioni semplicemente che anche nella ricerca e nei metodi di ricerca sostitutivi (perché soltanto quelli vanno definiti ricerca) è necessario avere il coraggio di scelte di protocolli chiari, coerenti e mirati allo studio serio della patologia che ci si appresta a studiare, sia essa una patologia a competenza diretta o indiretta come nel caso di effetto collaterale ad altra patologia principale dell’uomo che ne è affetto.
Auspichiamo quindi prospettive in tempi veramente brevi di cambi di rotta radicali, indice di responsabilità scientifiche basate su onestà intellettuale.
Professoressa Mirta Bajamonte
Presidente Penco Bioscience
Presidente IVF Mediterranean Centre


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24 aprile Giornata mondiale degli animali da laboratorio

24 aprile Giornata mondiale degli animali da laboratorio

LEAL_conigliLEAL_Stop_Vivisezione_coniglio_nero_-Un simbolico minuto di silenzio per commemorare i milioni di animali che la ricerca tortura e uccide nei laboratori di tutto il mondo. Per non dimenticare nessuna di queste creature, per liberare quelle ora rinchiuse nei laboratori di ricerca e per impedire che altri animali muoiano per mano dei vivisettori LEAL Lega Antivivisezionista si batte per denunciare gli enormi interessi economici e di carriera che mietono un numero infinito di vittime. Stefania Filardo, responsabile di LEAL sezione di Bologna, parteciperà con altri attivisti all’evento organizzato dall’associazione Essere Animali il 23 aprile, davanti al Galletti Lab del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie, che ha sede in pieno centro a Bologna e dalle cui pubblicazioni emergono recenti ricerche sul cervello dei macachi.
Si stima che solo in Italia siano stati utilizzati almeno 760.000 animali nel 2012 in oltre 700 laboratori e le università pubbliche di Bologna, Parma, Ferrara e Modena fanno ricerca in vivo e hanno addirittura ottenuto il permesso di fare esperimenti in deroga senza anestesia sulle scimmie.
LEAL crede nella buona ricerca e punta sui metodi sostitutivi, per questo finanzia dal 1981 borse di studio per una ricerca senza animali.
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Monta la rabbia degli animalisti inglesi

Monta la rabbia degli animalisti inglesi

rabbitvivQuesto il bilancio pubblicato nel report sulla ricerca scientifica dell’Home Office britannico (l’equivalente del nostro Ministero degli Interni). Oltre 11 mila animali in più dell’anno precedente secondo un articolo pubblicato sull’Express.
Nonostante le promesse post-elettorali, il Governo di Londra ha fallito per il terzo anno consecutivo l’obiettivo di ridurre il numero degli animali impiegati in esperimenti.
Secondo i dati gli animali geneticamente modificati costituiscono oggi più della metà dei soggetti utilizzati, e gli scienziati continuano a giustificare il ricorso alla sperimentazione animale come una necessità per trovare soluzioni efficaci a malattie come il Parkinsons, l’Alzheimer o il cancro.
Tuttavia, le evidenze ci dicono che nonostante i lunghi anni di ricerca alle spalle, ancora ben poco si è ottenuto da questi test. Forse è giunto il momento di provare nuove strade, come da tempo sosteniamo.
Il Regno Unito potrebbe in questo senso fare da apripista in Europa, e nel mondo, essendo il maggior utilizzatore di animali negli esperimenti di ricerca, come ha sottolineato Michelle Thew, responsabile di BUAV (British Union for the Abolition of Vivisection).

Il New Iberia Research Center libera 110 scimpanzè

Il New Iberia Research Center libera 110 scimpanzè

scimpanzeLa notizia di qualche giorno fa è di quelle che vorremmo leggere ogni giorno: 110 primati, tra gli uno e i 50 anni, finalmente liberi. Dopo anni di proteste e di lunghe battaglie, il movimento animalista è riuscito a convincere il New Iberia Research Center in Louisiana a cedere gli scimpanzé all’oasi faunistica Chimp Heaven.
Ora, dopo essere stati sfruttati in esperimenti su malattie umane come l’epatite e l’Aids, sottoposti a biopsie e operazioni chirurgiche, potranno finalmente godersi la loro vita, arrampicandosi sugli alberi, rilassandosi al sole e condividendo quei rapporti sociali che in laboratorio sono del tutto negati. Nei laboratori di ricerca gli scimpanzé venivano tenuti in gabbie di cemento e acciaio e divisi in sistemazioni singole.
Ma se per questi 110 animali è arrivata finalmente la libertà, altri 800 scimpanzé restano ancora chiusi nei laboratori Usa.