Anche LEAL sottoscrive la lettera ai Garanti per la Tutela degli Animali del Comune di Milano

Anche LEAL sottoscrive la lettera ai Garanti per la Tutela degli Animali del Comune di Milano

Anche LEAL sottoscrive la lettera che Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice, ha inviato ai Garanti per la Tutela degli Animali del Comune di Milano dottoressa Paola Fossati e dottor Gustavo Gandini chiedendo anche a nome delle associazioni firmatarie di prendere posizione in merito allo sterminio e addirittura alla eradicazione delle nutrie ricorrendo a metodi violenti annunciati da Fabio Rolfi, assessore regionale all’Agricoltura della Lombardia.
→ Notizia online sito askanews

Foto Italy Photo Press / Mauro Chiericobr />Rognano – Pavia
Nella foto un piccolo esemplare di nutria bianca (albina) animale molto raro, fotografato nei pressi di un fosso nelle campagne della provincia di Pavia
IPP – World Copyright

Testo della lettera
Alla cortese attenzione dei Garanti per la Tutela degli Animali del Comune di Milano,
dr. Paola Fossati
e
dr. Gustavo Gandini
Gentilissimi,
come di certo è già a Vostra conoscenza (askanews 13 giugno 2019, ore 16.24), la Regione Lombardia è intenzionata a procedere all’eliminazione violenta di centinaia di migliaia di nutrie, servendosi di cacciatori, “trappers professionisti”, ma anche di “volontari”, stanziando all’uopo una somma di € 400.000, già giudicata inadeguata e quindi meritevole di essere incrementata.
L’esperienza già in atto altrove (nella vicina Regione Piemonte si fa ricorso alla sterilizzazione) e i progetti di varie associazioni dimostrano la percorribilità di strade diverse, che affrontano la situazione con metodi ben più civili e rispettosi degli animali non umani, e per altro più efficaci.
Siamo convinti non si possa rimanere inerti davanti all’annunciata carneficina e sia invece necessario rispondere con una strenua opposizione: chiediamo quindi che, nel ruolo di garanti in difesa degli animali della città di Milano, ci sia da parte Vostra un intervento deciso e motivato per contrastare un’iniziativa tanto cruenta, contrasto per il quale sono tante le associazioni pronte a continuare ad operare e collaborare fattivamente.
In attesa quindi di una chiara e sollecita presa di posizione da parte del Vostro ufficio e di un gentile riscontro, auguriamo buon lavoro e cordialmente salutiamo.
Annamaria Manzoni
Animal Law
A.P.I.D.A.
Associazione Amici del Laghetto Milano2
Futuro Vegan
Gaia Animali e Ambiente
LAC Lombardia
LAV Milano
LAV Bergamo
LEAL Lega Antivivisezionista
Movimento Antispecista
SOS GAIA
Artists United for Animals
Vita da Cani
Vivere Vegan Onlus

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Divertirsi sul dolore degli altri animali

Divertirsi sul dolore degli altri animali

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.

La legge di riferimento contro i maltrattamenti animali (la 189 del 2004), che non si schiera a favore degli Animali, ma (Titolo IX-BIS) del sentimento degli uomini nei loro confronti, specifica che tale eventuale sentimento non viene tutelato se viene smosso da eventi correlati a situazioni legalizzate, tra le quali vengono citate le manifestazioni storiche e culturali.
Implicitamente, quindi, la legge prende atto della crudeltà insita in tali manifestazioni, delle possibili reazioni da parte delle persone, ma decide di lasciarle fuori dal proprio ambito di intervento, stabilendo così un abisso giuridico tra comportamenti simili in situazioni diverse.
Sulla scorta di questo stato di cose, ancora oggi è necessario ribadire un principio che dovrebbe invece essere scontato, vale a dire che i maltrattamenti degli Animali non dovrebbero essere considerati in alcun modo leciti, nemmeno se connotati come espressione di manifestazioni storiche e culturali e di tradizioni, che di fatto sono una copertura, come vedremo, assolutamente contestabile.

Il problema non è certo secondario, dal momento che queste manifestazioni si contano nell’ordine delle migliaia e coinvolgono Animali di ogni tipo: cavalli, asini, tori, mucche, buoi, capre, agnelli, piccioni, oche, rane: sempre più gettonati, pare, gli asini. Anche la regione Piemonte non si fa mancare nulla, visto che contempla corse di buoi, palii di asini e cavalli, oltre a fiere di ogni tipo, nonché addirittura una cursa dla galina (a Piverone -Torino) in cui, come spesso accade, pur in era di globalizzazione sono i quattro rioni della città a sfidarsi; e anche questa è una caratteristica non rara: il riferimento a Siena è fin troppo ovvio.
Sono accomunate da alcuni elementi, vale a dire:
. l’evento è privo di qualsiasi utilità: gli spettacoli sono fini a sé stessi, puro e semplice divertimento;
. per una buona riuscita, risultano fondamentali la presenza e il coinvolgimento di pubblico, di una folla possibilmente eccitata, vociante e rumorosa;
. o prevedono che gli Animali siano costretti a comportamenti innaturali, in antitesi alle loro caratteristiche etologiche, perché, se facessero quello che è nella loro natura, non ci sarebbe spettacolo; di conseguenza possono facilmente essere coinvolti in competizioni rovinose, possono essere feriti o morire; il tutto in un clima di euforia collettiva.
Si ripete ogni anno, in maggio, la Corsa dei buoi di Asigliano (Vercelli), che ha luogo in occasione della festa Patronale di San Vittore: i buoi, animali lenti per natura, sono costretti a correre in evidente spregio delle loro caratteristiche etologiche, nel corso di “una bella festa”: in questo caso il ricordo da salvaguardare (ma chi è che davvero “ricorda” o è anche solo interessato a farlo?) sarebbe quello di un’epidemia di peste del 1436 in cui fu San Vittore a compiere il miracolo della guarigione collettiva: gli abitanti si impegnarono allora a fare correre “in segno di gioia e di gratitudine” gli animali più lenti, secondo la diffusa pratica di far pagare ad altri i propri debiti: in sintonia con la tradizione dell’agnello da sacrificare per pagare i peccati del mondo. Gli storici per altro contestano la ricostruzione, ma tant’è: foto e video delle passate edizioni mostrano animali terrorizzati, inseguiti e bastonati con grande convinzione dai giovani locali in preda a delirio machista mentre anche i bambini ai lati della pista urlano e si divertono.
Corse di buoi hanno luogo in molte parti del paese: a Chieuti (Foggia) per esempio, dove i buoi, legati in pariglia, sono altresì costretti a trascinare pesi di quintali, pungolati e bastonati dai giovani locali; il tutto in onore di San Giorgio, che avrebbe ucciso il drago. O ancora nel Basso Molise (Portocannone, San Martino in Pensilis, Ururis), precedute dalla benedizione religiosa. O a Caresana (Vercelli), sempre in onore di San Giorgio. E via maltrattando.
Tutto questo viene sdoganato in nome di valori storici, tradizioni e cultura: ma ben poco c’è di vero in tutto questo, come è facile argomentare. Visto il potere che rivestono questi termini, va sottolineato in primo luogo che le tradizioni non giustificano nulla, in quanto non si rifanno alla forza di un argomento, ma si limitano a richiamarsi alle consuetudini.
Per quanto concerne il richiamo alla Cultura parlare di “cultura” significa riferirsi ad un vasto patrimonio di conoscenze, credenze, comportamenti, abitudini, costumi, convenzioni, tipici di determinati contesti, coltivati e tramandati da una generazione all’altra. Ma nulla rimane immobile, immutabile: la trasmissione intergenerazionale si attua attraverso gli individui e ogni generazione è diversa da quella precedente, come è esperienza osservabile anche nel privato, all’interno delle famiglie, dove il gap tra genitori e figli è evidente, perché i figli sono portatori di valori e comportamenti spesso in contrasto con quelli dei genitori, tanto più in tempi di rivolgimenti velocissimi quali sono quelli attuali. Le persone modificano i loro comportamenti in funzione del contesto e quando i vecchi modelli risultano privi di senso, non sintonici con un pensiero che si è trasformato. Inoltre il termine “cultura” possiede una connotazione positiva: contempla implicitamente l’idea di civilizzazione, di affinamento ed evoluzione dei costumi, implica un progresso verso il rispetto per tutte le forme viventi: significa ampliamento della coscienza.
Nello specifico, non stupisce che manifestazioni che hanno avuto origine in tempi lontani contemplassero un uso distorto degli Animali: si trattava di tempi in cui il rispetto per loro era pressoché sconosciuto. Ma negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi anni hanno avuto luogo potenti cambiamenti nella cultura dei diritti, anche di quelli animali. Le conoscenze etologiche, se mai ce ne fosse stato bisogno, hanno tolto ogni alibi: sappiamo con certezza che sono in grado di provare dolore fisico e malessere emotivo; sanno soffrire, gioire, godere; sperimentare ansia, paura, depressione; sono stati riconosciuti come esseri senzienti (Trattato di Lisbona; 2009); molti di loro (mammiferi, uccelli, alcuni invertebrati quali il polpo) come dotati di autoconsapevolezza (Dichiarazione di Cambridge; 2012). Esiste una Dichiarazione Universale dei Diritti degli Animali (1978); un Manifesto per l’Etica Antispecista (2002); è andata crescendo in modo esponenziale la sensibilità nei loro confronti: se vogliamo parlare di cultura, è questa la cultura in cui siamo immersi oggi, assolutamente distonica nei confronti del loro abuso, tanto più inaccettabile quanto ricercato a puro scopo di divertimento.
Per altro ce ne guardiamo bene dal coinvolgere gli animali che ci sono più cari, quali cani e gatti, nonostante non se ne astenessero i nostri lontani progenitori: sotto l’impero romano, nel corso dell’Augurium Canarum, una pecora e una cagna dal pelo fulvo venivano sacrificate per contrastare la calura estiva. Non destava scandalo e non stupisce in quanto erano tempi in cui, secondo alcuni storici, i romani come i galli mangiavano carne di cani appositamente allevati. Semplicemente questo non è più accettabile dalla nostra cultura; lo è in altre, in cui per esempio vengono compiuti riti woodoo che prevedono l’uccisione orribile di galline e gatti, possibilmente neri. In un’altra cultura ancora (quella brasiliana della presidenza Bolsonaro!!!) è appena stata votata all’unanimità una legge che, in nome del diritto fondamentale alla libertà religiosa, permette il sacrificio animale in ogni religione, non solo in quelle animiste: il che grida vendetta alle nostre orecchie, evidentemente non a quelle dei brasiliani.
A dimostrazione che il richiamo alla cultura è una sorta di passepartout funzionale a sdoganare ciò che si vuole, si può poi pensare ai rodei, che contemplano l’evidente tormento di cavalli o altri animali (addirittura vitelli!) che cominciano ad appestare anche i nostri paesi, autorizzati dalle autorità competenti nelle regioni in cui hanno luogo, nonostante di certo non affondino le radici nelle nostre tradizioni.
Cultura o invece divertimento e abbuffate?
Ancora: di moltissime di queste manifestazioni l’origine antica, se anche c’è, è davvero difficoltosa da recuperare, ma, anche quando anche risulta fattibile farlo, interessa poco o nulla astanti e organizzatori, con l’esclusione se mai di qualche isolato studioso che si affanna a giustificare l’ingiustificabile a beneficio di una locandina dell’Ufficio del Turismo. Ciò che è vivo e vegeto è invece il piacere derivante dalla situazione: senza dimenticare né sottovalutare che spesso queste feste si trasformano in occasione per abbuffate, dove la vittima privilegiata è lo stesso animale di cui si celebra appunto la “festa”, pubblicizzata senza pudore in manifesti che invitano alla festa del maiale, del cavallo, dell’asino, dell’oca, e di tanti altri ancora.. Non raro che sui manifesti si veda l’immagine in genere sorridente della vittima designata, tipo il maiale che tiene nelle zampe coltello e forchetta.
Nella Corsa del Gallo a Strozzacapponi (Perugia), l’evento più atteso è la corsa di 400 metri con un gallo, sollevato dagli uomini mentre corrono, in portantina, a mò di statua: lui cade, scappa, viene recuperato: ci si diverte davvero tanto a vederlo mentre cerca di sottrarsi a tutto questo. Non bastasse, l’assistenza al pollastro (come leggiadramente lo chiamano alcuni cronisti) termina poi con un grande banchetto: perché la Sagra è quella del Crostone, vale a dire pietanza con ben venticinque ingredienti a base di interiora di pollo.
Altro che cultura e tradizione, o residui di sacralità: si celebra piuttosto il trionfo della beffa, del cinismo, dell’irrisione della sofferenza e della morte degli Animali: mentre ci appelliamo ai valori della tradizione, costringiamo esseri indifesi a competizioni senza senso e noi entriamo in deliri di ingordigia, in cui ci muoviamo con soddisfazione.
Motivazioni reali
Alla luce di tutto questo, parlare di cultura e tradizione appare in realtà una forma di razionalizzazione, vale a dire ci serviamo di quel meccanismo di difesa tanto diffuso, di impiego frequente, che consiste nel fornire una spiegazione fittizia, ma plausibile ad un comportamento, che invece è dettato da motivazioni ben più egoistiche che non è facile ammettere, perché siamo consapevoli che non ci farebbero onore. Insomma: molto più nobile sostenere che si è lì a celebrare tradizioni che non a divertirsi e ad abbuffarsi. È una narrazione rassicurante, socialmente accettabile, a volte persino convincente: e i nostri istinti goderecci sono sdoganati con tanto di nobilitazione.
Il pubblico delle sagre
Se la sofferenza degli animali è di per sé inaccettabile e quindi sufficiente a privare di qualsiasi legittimazione manifestazioni che la provocano, è anche importante occuparsi delle ricadute sugli umani, bambini e adulti.
Bambini
I bambini, che sono spesso il pubblico privilegiato di manifestazioni vissute come momenti di festa, ne subiscono gli effetti deleteri, che si valutano in termini di possibile desensibilizzazione. Se l’educazione deve essere soprattutto educazione al rispetto per l’altro, se è fondamentale lo sviluppo dell’empatia, siamo davvero davanti ad un grande fallimento. L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, in sintonia con il suo stato mentale, con la capacità di decodificarne le emozioni in una sorta di risonanza emotiva: è inscritta nelle nostre potenzialità, nasciamo programmati per svilupparla, ma perché questo succeda occorrono modelli, modelli non teorici, ma di comportamento, esattamente come succede per il linguaggio. Gli adulti sono fondamentali, e il messaggio che inviano è tanto più potente quanto più sono investiti di autorità, a fare inizio quindi da genitori e principali figure di riferimento. I bambini svilupperanno empatia osservando e condividendo situazioni in cui gli adulti di riferimento avranno comportamenti empatici, manifesteranno cioè vicinanza, comprensione, condivisione, rispetto per gli altri, metteranno in moto comportamenti di aiuto e di solidarietà. Ora, situazioni in cui la sofferenza degli animali, il lor terrore, il loro maltrattamento non provocano rifiuto e azioni di soccorso, non mettono in moto un rispecchiamento empatico, ma invece soddisfazione ed entusiasmo, sono di per sé stesse deleterie sul piano educativo, insegnano una lezione di prepotenza e prevaricazione distante anni luce da un approccio all’educazione e al rispetto di chi è diverso ed è debole, proprio in quanto dirette in direzione contraria allo sviluppo dell’empatia, che è invece fondamentale momento di crescita. La direzione che viene assunta è quella dell’analfabetismo emotivo, che non rimarrà circoscritto nel perimetro della manifestazione in atto, ma sarà un tassello nella formazione della personalità. Sappiamo dagli studi psicologici che lo sviluppo dell’empatia rende gli individui meno aggressivi e più disponibili verso gli altri; e si vanno moltiplicando gli studi che prendono in considerazione il link che lega l’empatia verso gli animali a quella verso gli umani, a partire da una sorta di identificazione e di simpatia verso gli esseri più deboli. In questa ottica, è stato stilato qualche anno fa il Documento degli Psicologi (
→ documento) firmato da oltre 700 colleghi, in cui si esprime motivata preoccupazione per il coinvolgimento dei bambini in tutte le situazioni in cui la sofferenza e il maltrattamento degli Animali vengono disconosciuti o diventano motivo di festa.
Adulti
Se queste sono le ricadute sui bambini, ci si deve interrogare anche sugli adulti, ci si deve chiedere come sia possibile che tanta gente si accalchi e partecipi con entusiasmo al tormento pubblico di animali. Le motivazioni sono tante e non si può certo sottacere che sensibilità, solidarietà, altruismo sono valori non così popolari come sarebbe auspicabile.
È comunque utile l’osservazione che quella che va in onda è una sorta di mistificazione, vale a dire di alterazione degli avvenimenti, resa possibile dal sommarsi di svariati elementi. Spesso il nostro modo di conoscere le cose non è quello che crediamo: siamo convinti di possedere un giudizio pulito, oggettivo, libero da condizionamenti, mentre in realtà ci avviciniamo alle situazioni con un bagaglio di convinzioni, di cui spesso non siamo consapevoli, che è il frutto del contesto in cui viviamo e della connotazione normalmente attribuita alle esperienze: il tutto dirige il nostro giudizio. Nello specifico, il fatto che le manifestazioni sono legali, autorizzate e organizzate dalle autorità cittadine è già una forma di condizionamento, perché, nella mente di molti, i concetti di legalità e di giustizia si fondono; manifesti pubblicitari ne sottolineano l’appetibilità; la benedizione religiosa tanto spesso impartita agli Animali e alla sagra stessa aggiungono credibilità e plusvalore. In sintesi: maltrattare gli animali nelle sagre, siccome è legale e anche un po’ sacro, di sicuro è anche giusto.
Possiamo poi anche aggiungere che quando le persone sono organizzate come folla, beh allora, come ha cominciato a sottolineare Le Bon addirittura nel 1895 senza mai essere poi smentito, le capacità critiche spesso collassano in favore del contagio emotivo. In altri termini l’entusiasmo, le grida, l’euforia obnubilano le capacità critiche.
La sofferenza degli animali non viene colta perché l’attenzione è tutta spostata su altro: se sono piccoli, come le rane, i loro segnali di terrore sono semplicemente poco visibili; nella corsa delle oche, dei maiali, degli asini le grida. i ragli, gli starnazzamenti sono un incentivo al clima di euforia. Se grandi animali, buoi o cavalli cadono rovinosamente, si feriscono, muoiono o vengono addirittura uccisi, beh quello è un tributo, uno spiacevole accidente, che nulla toglie alla situazione, e l’esecuzione pubblica è mistificata in intervento pietoso. Nessuno è innocente, tanto meno lo sono i cronisti che tanto spesso raccontano gli eventi con un entusiasmo urlato e convinto, in cui non si trova traccia di quel senso critico che ci si potrebbe aspettare da chi è deputato a trasmettere informazioni.
In conclusione: legislatori illuminati non dovrebbero rimanere spettatori passivi, ma essere promotori di cambiamento. Invece le leggi vengono promulgate solo quando “i tempi sono maturi”: in altri termini quando si è sicuri di poter contare sul consenso elettorale. Quando finalmente si esprimono, svolgono un’operazione che risulta fondamentale grazie all’autorità che le leggi rivestono e perché i loro dettami col tempo vengono introiettati ed assumono alla fine il vigore di norme morali di riferimento.
Per quanto riguarda le situazioni di cui stiamo parlando, non dovrebbe essere difficile: in fondo si tratta solo di stabilire una volta per tutte che maltrattare gli Animali è un’azione abietta, che farlo per divertirsi ha in sé una componente sadica che abbiamo il dovere di riconoscere e di denunciare, uscendo una volta per tutte dalla mistificazione che ammanta di cultura ciò che in realtà è barbarie.
In fondo non si tratta di discutere se le sagre sono o non sono manifestazioni culturali, ma si tratta di decidere semplicemente, una volta per tutte, in quale mondo vogliamo vivere: e questo, così come è fatto, di sicuro non va bene. “Che ne venga un altro” diceva Josè Saramago.
(Intervento al convegno “Fiere, corse, sagre con animali”. Sala SOS Gaia, Torino 13/04/2019)

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Non è un pianeta per scimmie: sperimentazione unlimited

Non è un pianeta per scimmie: sperimentazione unlimited

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.

La storia continua: giusto un anno fa, il 24 gennaio 2018, l’Istituto di Neuroscienze dell’Accademia Cinese delle Scienze di Shanghai, aveva comunicato la nascita di Zhong Zhong e Hua Hua, due cucciole di macaco, frutto di clonazione. Termine, quello di clonazione, familiare già dal 1996 quando aveva “prodotto” la pecora Dolly (“abbattuta”, nonostante la sua fama, a circa 7 anni di età a causa delle complicazioni di un’infezione e finita imbalsamata al National Museum of Scotland), e poi, a seguire, mammiferi di altre 23 specie: maiali, gatti, cani, ratti…; con l’Italia all’avanguardia con il toro Galileo, la cavalla Prometea e un rinoceronte bianco. Ma la “tecnica” cinese era stata la prima ad avere successo con i primati, entusiasti della possibilità di creare un “esercito di scimmie”, secondo la loro espressione, su cui fare tutto ciò che avessero ritenuto opportuno su un Animale “così vicino all’uomo”. Gioia e delizia per gli scienziati, ma viva preoccupazione per i cattolici, che paventavano il possibile, diciamo pure probabile, passaggio alla clonazione umana, in una sorta di “delirio di onnipotenza”, diceva il cardinale Angelo Bagnasco, mentre altri, quali il ricercatore Cesare Galli, lamentavano astiosamente le restrizioni (sic!) vigenti in Italia.
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Come previsto, la ricerca è proseguita a spron battuto e il 23 gennaio di quest’anno dallo stesso Istituto cinese arriva la festosa notizia: nuova clonazione e questa volta le scimmie sono cinque e, udite udite, tutte malate di insonnia.

Tutte le torture, i patimenti, i terrori
inflitti agli animali
appartengono legittimamente al dolore infinito della storia
e ne modificano il senso, se ne abbia uno.

Guido Ceronetti

In breve: degli Animali sono stati modificati geneticamente in modo da silenziare un fattore che regola il ritmo biologico e quindi l’alternarsi del sonno e della veglia; da loro sono state prelevate delle cellule, a partire dalle quali i ricercatori hanno completato la clonazione: il risultato sono le cinque nuove scimmiette con lo stesso difetto genetico, destinate a non dormire mai, fino alla fine della loro miserabile vita.
Davvero un successone, spiegano, visto che mai prima si era riusciti a clonare Animali affetti da insonnia, disturbo capace di generare a propria volta squilibri ormonali, ansia, depressione, schizofrenia: di tutto questo soffriranno i cinque piccoli primati nati in laboratorio, ma non poniamo limiti, perché, secondo il parere di Hung-Chun Chang, coordinatore dello studio pubblicato su National Science Review, potrebbero insorgere anche altre patologie neurodegenerative, riprodotte in laboratorio.
Apprezzamento anche dagli scienziati di casa nostra, tra cui Carlo Alberto Redi (accademico dei Lincei e direttore del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie dell’Università di Pavia), che, sottolineando la “serietà” dell’esperimento, afferma che in questo modo “si sono ottenuti ‘avatar’ suscettibili di malattia nelle scimmie, gli animali più vicini all’uomo”; e di Giuseppe Novelli (rettore dell’Università di Roma Tor Vergata), che pregusta possibili progressi nella cura del diabete nonché dell’invecchiamento precoce, “perché finalmente abbiamo ciò che mancava, vale a dire un animale modello di malattia così vicino a noi”. Senza doverci più accontentare, quindi, dei topi, da sempre martoriati in numero oceanico, ma ahimè più lontani da noi quali “modelli”, quindi poco utili, come si deduce dalle parole degli stessi ricercatori, che pure con accanimento si sono prodigati ad usarli e abusarli, in spregio dell’opposizione di parte del mondo scientifico che da tempo ne sostiene la non validità. Ma tant’è: con tutti i topi che ci sono, ed esseri spregevoli quali noi li consideriamo, non è il caso di porsi tanti problemi al loro impiego, pur se inutile.
Mentre il dibattito continua a snodarsi tra timori etici totalmente antropocentrati ed entusiasmi scientifici, restano escluse dal perimetro dell’interesse le piccole scimmiette, protagoniste perplesse e inconsapevoli, nonostante sia su di loro che si gioca tutta la partita, partita tragica, di perenne sofferenza: le prime destinate allo studio di malattie (Parkinson, Alzheimer, tumori…), da fare insorgere sui loro corpicini; le altre già malate ancora prima di aprire gli occhi su un mondo il cui orizzonte sarà per sempre delimitato dalle pareti asettiche di un laboratorio e su cui neppure per un attimo potranno chiudere gli occhi per un po’ di riposo vista la loro condanna senza appello ad una veglia perenne. Esserini da far crescere per un po’ in ambienti protetti e sterilizzati affinché, non sia mai, non si ammalino di alcuna malattia imprevista, perché malate devono essere e tanto, ma solo di quei morbi che animano l’interesse dei loro studiosi, e che presumibilmente in natura non potrebbero mai sviluppare. In ogni caso se qualche imprevisto dovesse malauguratamente rovinare il “modello” da loro rappresentato, non ci sarà da preoccuparsi oltre misura, dal momento che l’auspicato “esercito” di loro omologhe giustificherà un uso rilassato, qualche spreco, qualche generosità nell’impiego del “materiale” abbondante.
Il richiamo allo psicologo statunitense Harry Harlow (1905-1981) e ai suoi macabri esperimenti è potente: intorno agli anni ’60 del secolo scorso, intenzionato a studiare le conseguenze della deprivazione materna, cominciò ad utilizzare piccoli macachi, che staccava dalle madri a solo poche ore di vita, e poi chiudeva in gabbie, in cui inseriva “madri finte”, di stoffa e di metallo. I piccoli cercavano un disperato contatto con la “mamma morbida”, preferendola a quella di metallo pur se era quest’ultima a fornire il latte. Il bisogno di contatto era talmente forte che i piccoli si avvicinavano a queste madri surrogate anche quando queste erano dolorosamente respingenti, come dimostrò il dr. Harlow, che usò “madri” progressivamente sempre più minacciose: capaci di emettere aria compressa ad alta pressione, poi in grado di oscillare violentemente al punto di far tremare i denti e il capo del cucciolo, di buttare fuori una struttura metallica, che lo allontanava violentemente, fino ad arrivare alla “madre porcospino” emetteva” aculei metallici. Niente da fare: i cuccioli, benché angosciati, non smettevano di aggrapparsi alla “madre” “perché un bambino spaventato si attacca a tutti i costi alla madre. Non ottenemmo come risultato alcuna psicopatia, ma non desistemmo”. La successione orrenda delle fasi dell’esperimento risulta struggente persino da descrivere; ma non per il dr. Harlow da ideare, dal momento che proseguì facendo costruire un suo personale “pozzo della disperazione”, in cui teneva in totale isolamento dalla nascita e per molti mesi dei piccoli di macaco, per studiare le loro reazioni: per la cronaca non sorprenderà sapere che erano di paura. Lecito qualche interrogativo sulla personalità del dr. Harlow, su cui risulta illuminante una sua dichiarazione (1974): “L’unica cosa che mi interessa è se una scimmia rivelerà qualcosa che posso pubblicare. Non ho alcun amore per loro. Mai averne. Non mi piacciono gli animali. Disprezzo i gatti. Odio i cani. Come potrebbero piacermi le scimmie?” Appiattimento emotivo, sentimenti negativi, utilitarismo come unica bussola del comportamento.
Non stupisce che i suoi esperimenti siano ricordati tra quelli più sadici e crudeli, tali, si ritiene, da avere alimentato per reazione la crescita della sensibilità animalista, insieme alla convinzione autoconsolatoria che siano stati possibili solo in un’epoca in cui, liberi da vincoli etici, gli scienziati potevano permettersi di tutto. Ma davvero gli esperimenti a cui sono oggi sottoposte le scimmiette cinesi risultano meno spietati?
Sarebbe rassicurante poterlo credere, ma non sembra proprio. Anche loro sono immediatamente separate dalle madri (per inciso: surrogate) e questa separazione forzata è fonte di quell’angoscia, di cui già Harlow prendeva atto affermando di non stupirsi della drammatica ricerca di contatto, anche pagato al prezzo di respingimenti dolorosi, perché ”l’unica risorsa di un piccolo colpito o respinto – sia esso umano o rhesus – consiste nel creare a tutti i costi uno stretto contatto con la madre”. Ma, mentre Harlow divulgava queste osservazioni, che erano l’oggetto dei suoi esperimenti, delle reazioni, che possiamo immaginare ugualmente sconvolte, inconsolabili, terrorizzate, delle scimmiette cinesi non troviamo menzione, non interessano, non sono oggetto di studio. E che dire della depressione? Harlow la innescava mettendo gli Animali nel pozzo della disperazione, oggi gli scienziati la provocano come effetto della privazione del sonno: difficile pensare che per le scimmiette faccia differenza l’origine della loro sofferenza, dei dolori fisici e psichici a cui solo la morte darà sollievo.
Quanto agli autori degli esperimenti, il dr. Harlow rivendicava orgogliosamente indifferenza, insensibilità, odio nei confronti degli Animali che torturava: altri tempi. Oggi i suoi epigoni se ne guarderebbero bene: si sono evoluti psicologicamente e sono ben consapevoli di dover neutralizzare le proteste di una parte dell’opinione pubblica con metodi ben più efficaci di un provocatorio ed ostentato menefreghismo: molto più efficace ricorrere ad un meccanismo ben collaudato quale quello della giustificazione morale: se il male inflitto è funzionale ad avere la meglio sulla sofferenza umana, a lenire il dolore nostro e delle persone care, dei nostri figli (!!!), allora è giustificato, anzi lecito, di più: doveroso. Non occorre neppure argomentare tanto: basta distogliere l’attenzione dalle vittime e concentrarla sull’obiettivo, sulle ricadute preziose sul benessere umano. Insomma, l’assioma per cui il fine giustifica i mezzi è di incredibile presa e, come sempre nella storia dell’umanità, giustifica qualsiasi oscenità.
Un’attenzione particolare in tutta la vicenda merita l’informazione mediatica, in grandissima parte ancella fedele della sperimentazione animale come di ogni pratica funzionale a sostenere il sistema di valori dominante: negli articoli, a fare inizio dai titoli ad effetto, si sottolineano gli orizzonti ottimistici che vedrebbero la sconfitta di malattie, che invadono con il loro carico ansiogeno l’universo delle nostre paure; si parla di nuove frontiere della scienza; si lodano i successi della ricerca. Ogni pensiero rivolto a Zhong Zhong, Hua Hua e alle loro sorelle minori viene sterilizzato: loro semplicemente scompaiono, non ci sono più: non ci si occupa della loro orribile sofferenza, derubricata a puro accidente, ininfluente in tutta la vicenda. Il linguaggio è al servizio della comunicazione: non si parla di Animali, ma di “campioni” o di “modelli”, entità incapaci di suscitare emozioni. Ciliegina sulla torta, non manca il trito riferimento al “sacrificio” animale, termine che rimanda ad una sorta di libera scelta all’autoimmolazione da parte delle vittime, a cui vengono improvvisamente attribuite capacità di valutazione e di scelta, sulla scorta di spinte altruistiche. Ma come? Non sono erano solo “modelli animali”?!? Tornano subito ad esserlo con il riferimento a quell’“esercito” messo a disposizione della ricerca, orrido preludio a quello che avverrà nel chiuso dei laboratori, rimarcato per salutare una scienza “finalmente” dotata di tutto il “materiale” che serve: e se saranno un esercito le scimmie “usate” vorrà dire che sarà stato necessario…
Siamo di fronte ad una vera e propria mistificazione dei fatti: mentre l’esistenza delle piccole e terrorizzate Zhong Zhong e Hua Hua va sfumando, con le loro sorelle minori, gli scienziati e i giornalisti all’unisono pare abbiano rimediato ad un errore comunicativo del passato, evitando di riferirsi a loro con un nome proprio: dare un nome equivale a riconoscere un’identità all’individuo, renderlo riconoscibile e collegarlo ad un’intera vicenda di vita (e di morte), come fu per esempio con la pecora Dolly, che rivive ancora nel nostro immaginario quando il suo nome ne rievoca le vicende. Prudentemente i nuovi piccoli primati sono soltanto le “scimmie clonate”, sorta di marziani irraggiungibili dalla nostra empatia, destinate a confondersi nella nostra mente con tutte le altre loro conspecifiche senza identità. L’oblio è già in corso: se di Zhong Zhong e Hua Hua si era parlato per qualche giorno, l’interesse sulle nuove “scimmie clonate” è stato immediatamente racchiuso nel perimetro del mondo scientifico, non accessibile al vasto pubblico, all’interno del quale è sempre possibile trovare fastidiosi contestatori. La vita continua e tutto si dimentica, soprattutto se non se ne parla.
Per il momento davanti agli occhi ci sono le immagine di scimmiette abbracciate, vicine, a cercare rassicurazione in altre uguali a sè, ugualmente fragili, pollice in bocca e sguardo mobile su una realtà ancora sconosciuta. Intorno tutta una miriade di peluches colorati, risarcimento a prezzi di realizzo delle loro vite scippate. La più vecchia delle due immagini è già icona del passato perché Zhong Zhong e Hua Hua, un anno dopo, sono forse solo corpi deturpati, torturati e malati: se ancora sono vive.
Nel mare di indifferenza e nell’asservimento al pensiero dominante, che sono la cifra della grandissima parte dei mezzi di comunicazione, muti davanti alla sofferenza di esseri indifesi e senza colpa, ancora risuonano, perché mai smentite, le parole dell’allora senatore Marco Perduca (Huffington Post) che si augurava che le scimmiette clonate prendessero il posto dei tanti gattini che infestano i social “perché sono i veri migliori amici dell’uomo”, augurio che interroga ferocemente sul concetto di amicizia: se è l’universo di dolore che stiamo approntando per le scimmiette ciò che riserviamo ai nostri migliori amici, bisognerà convincersi che davvero non ci sono più speranze per l’umanità.

Manzoni_ritratto_firma

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LEAL invita a Torino alla seconda conferenza "MALTRATTAMENTO ANIMALE: DALL’ETICA AL DIRITTO. QUALI PROSPETTIVE?"

LEAL invita a Torino alla seconda conferenza "MALTRATTAMENTO ANIMALE: DALL’ETICA AL DIRITTO. QUALI PROSPETTIVE?"

Conferenza organizzata da LEAL Lega Antivivisezionista e Movimento 5 Stelle Torino e Regione Piemonte
a cura di Silvia Premoli e Chiara Giacosa
23 marzo 2019
Palazzo Civico
Piazza Palazzo di Città, 1
ore 15.00 alle ore 17.00
Sala delle Colonne
Ingresso libero
PROGRAMMA
Saluti
Chiara Giacosa
, Consigliere comunale M5S
Silvia Premoli, giornalista, ufficio stampa e comunicazione LEAL
Proiezione video trailer documentario “DOMINION”
Interventi
Francesca Frediani
, moderatore, Consigliere Regione Piemonte M5S
Enrico Moriconi, garante per i Diritti degli Animali della Regione Piemonte
La valutazione etologica nella pratica
Gian Marco Prampolini, presidente LEAL
Le attività LEAL contro il maltrattamento animale: progetti ed iniziative
Maria Cristina Giussani, avvocato del Foro di Milano
Animali da allevamento e animali da vivisezione: un primo passo della giurisprudenza verso l’etica?
Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice
Le forme della violenza
Massimo Raviola, medico veterinario, autore di “Che razza di bastardo”
Il razzismo nei confronti di cani e gatti e le sue drammatiche conseguenze
Marco Strano, criminologo e profiler, presidente del CSLSG Centro studi per la legalità, la sicurezza e la giustizia
Alla radice della violenza di specie
LEAL Lega Antivivisezionista → www.leal.it
Movimento 5 Stelle Torino → M5S Torino
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Migranti e macellai: salvati dalla Sea Watch, assunti in macelleria

Migranti e macellai: salvati dalla Sea Watch, assunti in macelleria

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.

La notizia, così come è data, è una di quelle che allargano il cuore, almeno di coloro che negli immigrati non vedono nemici da cui difendersi, ma umani in difficoltà meritevoli di solidarietà: tre di loro hanno iniziato una nuova vita, assunti da un imprenditore in un paesino della Calabria, all’interno della Sila: fanno i macellai.
Si tratta di tre giovani africani, arrivati da paesi dannati per violenza e povertà (Nigeria, Sierra Leone, Guinea Bissau) con viaggi divenuti drammaticamente usuali, segnati dal deserto e poi da anni di una prigionia fatta da torture irriferibili quale unica cifra della relazione con i potenti e i prepotenti del luogo, e infine un tutt’altro che scontato salvataggio in mare. L’assunzione (a tempo indeterminato !!!) è un epilogo insperato, del quale il datore di lavoro e i suoi concittadini rivendicano orgogliosi l’iniziativa generosa e i tre immigrati considerano una opportunità, che riverbera sull’Italia e gli italiani sentimenti di apprezzamento e gratitudine.

Foto Jo-Anne McArthur


Lieto fine quindi? Forse, ma anche qualche riflessione un po’ più molesta, stimolata dall’associazione con realtà analoghe, più in grande stile, ma di segno davvero simile, considerato che il lavoro di cui si parla contempla il portare a termine “quasi tutto il ciclo della produzione”: in altri termini, la macellazione degli animali. L’associazione è con la notizia di un paio di anni fa, proveniente dal Canada, dove il ministro federale dell’occupazione pensò di assumere rifugiati siriani nei macelli della federazione, in risposta alla non disponibilità dei cittadini canadesi, pur afflitti da una crescente disoccupazione, ad accettare un lavoro basato sull’uccidere animali e lavorare le loro carni. Per quanto riguarda l’assunzione dei tre ragazzi, ci si chiede come mai, in una terra come la Calabria, gravata da indici di disoccupazione alle stelle, quei posti non risultassero già occupati da cittadini italiani.
Spesso il lavoro non lo si può scegliere e, quando si è in reale difficoltà, tanti sono i compromessi che si è disposti ad accettare: ma ciononostante, e pure in periodi di crisi conclamata, quello del macellaio conserva evidentemente la forza respingente che ha sempre portato con sé, fin dall’antichità: lavoro fondamentale visto il grande apprezzamento della carne, come alimento; e lavoro “onesto”, visto che non trasgredisce norma alcuna. Malgrado tutto ciò, lavoro connotato da un disprezzo non espresso a parole, ma nei fatti, tanto forte da assumere una chiara valenza sociale, che lo vede riservato da sempre agli schiavi o, in mancanza, agli strati più miseri della popolazione. Non molto è cambiato nella sostanza nel corso di secoli e millenni: ancora oggi in India a svolgerlo rimangono i paria, sopravvissuti nei fatti alla propria eliminazione legale quale casta reietta; negli Stati Uniti lo fanno spesso gli immigrati clandestini, provenienti dal Messico, senza diritti e senza riconoscimenti, e di conseguenza facilmente ricattabili. In Canada il ricorso agli immigrati esce dalle pieghe del sottobosco illegale ed assume i risvolti di una proposta strutturata, colorata dalle sfumature dell’accoglienza. In Australia si ricorda l’iniziativa di instradare i carcerati al lavoro di macellaio, in preparazione a quello futuro, da esercitare nel mondo libero una volta scontata la pena[1].
Una tale omogeneità di atteggiamenti, sparsa per i continenti, non può certo essere casuale: di fatto quella nei macelli è rimasta attività negletta, a causa delle pesanti condizioni in cui viene effettuata e dei salari tutt’altro che appetibili, ma anche per la connotazione tossica che mantiene, e ancora di più per quello che a volte è lo sconquasso psichico che il lavorarci dentro comporta: si tratta di stare a contatto con la morte violenta di esseri senzienti per la durata della giornata lavorativa, pungolarli ad avanzare nel terrore verso la propria morte, indifferenti alle loro urla disperate che pure invadono le orecchie, agire su di loro con una brutalità, che è parte integrante, imprescindibile, del lavoro stesso: sangue, vomito e feci intorno.
Lo svolgimento della vita di umani e nonumani nei macelli è denunciata nella sua insopportabile durezza da almeno un secolo, da quando il libro The jungle[2] (Upton Sinclair, 1906) ne portò allo scoperto tutto l’orrore: significativo che le reazioni sdegnate che ne seguirono furono innescate molto più dallo scandalo per le terribili condizioni igieniche, foriere di possibili conseguenze per gli umani, che dall’indignazione per il trattamento degli animali.
Ancora oggi, pur sulla scorta di un’accresciuta sensibilità nei confronti degli animali, a smuovere le coscienze nei confronti della realtà dei mattatoi non sempre è la loro difesa: non è raro, infatti, che le inchieste siano seguite solo da una sorta di denuncia sindacale, per la violazione dei diritti dei lavoratori: come se fossero solo questi i diritti violati. Denuncia sindacale che comunque resta imperfetta, incapace com’è di mettere a fuoco, tra i tanti rischi e i fattori patogeni di cui i lavoratori sono vittima, il peso psichico, le ricadute sull’emotività, l’incidenza negativa su aspetti della personalità, tutti elementi che talora si strutturano in vere e proprie patologie psichiche, che restano ancora escluse dal focus della salute sul lavoro.
A questa omissione dovrebbe ormai essere posto rimedio data l’esistenza di studi che hanno inquadrato con un nome e dato diritto di riconoscimento al forte disagio, che può derivare dall’essere perpetratore in prima persona di una violenza reiterata, legale o meno che sia: si tratta di un disordine psichico, il “trauma del perpetratore” (Pits, Perpetration-Induced Traumatic Stress), conseguente alla partecipazione diretta ad uccisioni di massa, che si manifesta con sintomi quali depressione, dissociazione, paranoia, ansietà, panico, abuso di sostanze, incubi violenti. Se primi oggetti di studio sono state le situazioni caratterizzate da vittime umane, le stesse dinamiche sono ormai riconosciute anche nei contesti in cui le vittime sono animali; tipico il caso, per esempio, di veterinari indotti a procurare la morte di molti soggetti sani, per esempio in risposta ad una “superproduzione”, un eccesso di individui, scomodi al “sistema”. In altri termini, uccidere a ripetizione può traumatizzare chi lo fa: anche se si tratta di Animali.
Approfondire la situazione nei macelli, luoghi gravati da “ambiguità morale” secondo le parole della sociologa australiana Nik Taylor, fino a riconoscerne la potenziale essenza patogena per i lavoratori, potrebbe avere conseguenze davvero grandi.
La vita dannata al loro interno è testimoniata, oltre che dai filmati clandestini, dalla letteratura, per sua stessa natura in grado di vivificarne la rappresentazione con la costruzione di personaggi che ne portano in sé la drammatica complessità. È il caso della brasiliana Ana Paula Maia con il suo “Di uomini e di bestie”[3], libro in cui il mattatoio emerge come luogo oscuro e maleodorante e i lavoratori come bastardi “nessunizzati”, calati in una catena di morte che uccide decine o centinaia di animali al giorno, per pochi centesimi ognuno volendo fare i conti. Per loro ogni giorno è dramma; qualcuno è parte così incistata nel meccanismo violento delle uccisioni da prolungare artatamente la sofferenza delle vittime per gustare il piacere perverso che ne deriva; qualcuno è emotivamente anestetizzato, incapace di modulare le proprie reazioni a seconda che abbatta un bue nel mattatoio o invece un motore in un’officina; qualcuno restituisce alla volontà divina la responsabilità del lavoro sporco che gli tocca fare a beneficio di altri, che non ci stanno a svolgerlo. Chi possiede una capacità empatica che dilata nel suo petto la sofferenza di ogni animale come fosse propria, incanala la sua protesta nel ruolo di giustiziere e ripropone contro un compagno di lavoro sadico lo stesso gesto con cui stordisce ogni animale: spaccandogli la testa, senza esitazione e senza rimorsi, perché lui sì che se lo è meritato, non come i buoi dagli occhi neri e profondi che cercano inutilmente il suo aiuto dall’ingiustizia o le pecore, che si inginocchiano e piangono quando muoiono. Lì dentro uomini e animali respirano lo stesso odore della morte, gli uni e gli altri vittime: ma solo gli animali davvero innocenti, perché “gli uomini delle bestie” sono al tempo stesso anche carnefici, per sempre contaminati dal sangue.
Per tornare alla notizia di apertura: per quanto non siano disponibili dati statistici sulla provenienza dei lavoratori nei macelli italiani, gli stranieri sono di certo molti, in alcuni casi, come pare nel macello di via Treves a Torino, addirittura la totalità degli assunti. Se il lavoro di macellare gli animali sta progressivamente diventando appannaggio di immigrati, bisogna aggiungere un’ulteriore riflessione: chi arriva da terre di guerra, sangue, morte e sopraffazione, immesso in un luogo di altro sangue, altre morti e altre sopraffazioni, è condannato a rivivere in forma diversa le tragedie da cui ha tentato di fuggire: passare dal ruolo di vittima a quello di carnefice non esenta dalla immersione in un inferno di sofferenza, quando forse nelle speranze e nei progetti vi erano pace e solidarietà.
È il tempo di vedere i mattatoi per quello che sono, luoghi di violenza, fucine di brutalità, destabilizzanti per loro stessa natura. La risposta, se vogliamo restare umani, non è riservarli a chi sta peggio: è tempo di chiuderli, perché, diceva Guido Ceronetti, “per quanta giustizia possa esserci in una città, basterà la presenza del mattatoio a farne una figlia della maledizione”.
L’argomento è trattato più estesamente in “Sulla cattiva strada”, Sonda 2014
[1] Programma “Sentenced to a Job” del Governo del Territorio del Nord del continente australiano.
[2] Upton Sinclair: “The jungle”, Net, Milano 2003.
[3] Ana Paula Maia: “Di uomini e di bestie”, La nuova frontiera 2016

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