23 Gen, 2024
Nel 2019, 77,4 milioni di tonnellate di carne delle sei principali specie animali allevate per il consumo umano sono andate perse lungo la filiera alimentare, provocando morti inutilmente. Per lo più, tra atroci sofferenze
L’umanità consuma ogni anno 360 milioni di tonnellate di carne. Ogni giorno – cioè ogni 24 ore – vengono uccise 1.4 milioni di capre, 1.7 milioni di pecore, 3.8 milioni di maiali, 11.8 milioni di papere (come quelle che ammirate con i vostri figli al giardinetto vicino a casa), 202 milioni di polli ossia 140.000 al minuto, centinaia di milioni di pesci e mammiferi marini, e circa 900.000 mucche. È stato stimato che se ogni mucca macellata per il consumo umano ogni giorno fosse lunga 2 metri e camminassero una dietro l’altra, la fila .si estenderebbe per 1800 chilometri
Numeri enormi, che assumono un peso ancora maggiore se pensiamo che una buona parte della carne ricavata da questi animali finisce poi nella spazzatura. Nel 2019, infatti, 77.4 milioni di tonnellate di carne delle sei principali specie animali allevate per il consumo umano, sono andate perse e sprecate lungo la filiera alimentare il che corrisponde a 18 miliardi di animali morti inutilmente e, per lo più, tra atroci sofferenze.
Vista da un’altra prospettiva, è come se ogni cittadino medio avesse gettato nella spazzatura 2,4 animali dopo averli fatti macellare. I numeri includono gli animali persi in qualsiasi punto della catena di approvvigionamento: da quelli morti prematuramente negli allevamenti o durante il trasporto al macello, durante la lavorazione o nei ristoranti, nei negozi di alimentari e dai consumatori.
Ignorare l’impatto della produzione globale di carne è un errore di cui abbiamo già iniziato a pagare le conseguenze. Secondo la Fao l’industria zootecnica è responsabile del 14,5% delle emissioni di gas a effetto serra oltre a contribuire al degrado del suolo e all’inquinamento.
L’Oecd ha collegato l’allevamento di maiali all’inquinamento di fiumi, laghi e falde acquiferevisto che non è raro che i reflui vengano gestiti in maniera errata dalle aziende.
Al contrario, se adottassimo una dieta vegetale, ridurremmo la percentuale di terreni a uso agricolo da 4.000 miliardi a 1.000 miliardi di ettari.
L’importanza di una scelta alimentare etica per la tutela degli animali, dell’ambiente e della salute non sottrae risorse quali terre coltivabili e acqua, ad esempio, ad altre popolazioni.
Foto Jo.Anne McArthur
Fonte La Svolta
LEAL sceglie e diffonde un’alimentazione vegetale e uno stile di vita vegan nel rispetto di ogni forma di vita.
16 Giu, 2020
Come già da tempo si ipotizzava si stanno accelerando i tempi di operatività delle catene di smontaggio! Ovvero la morte automatizzata. Non si smetterà di uccidere crudelmente gli animali ma si delegherà in modo definitivo la carneficina ad un robot.
Chissà che una volta risolta la questione della tutela del lavoratore, che non appartiene alla nostra lotta ma ai sindacati di categoria, si torni a contestualizzare gli animali come vere e uniche vittime e a rivedere la loro liberazione come obiettivo centrale prioritario e sempre più urgente!
L’olocausto animale è generato da indifferenza ed egoismo! Forse l’automatizzazione, priva di sentire ma anche di cattiveria e violenza risparmierà alle vittime parte degli abusi fisici e di un umiliante dileggio! Ecco forse le macchine non infieriranno!
La scelta radicale di abbandonare il consumo di carne e i prodotti di origine animale optando per una alimentazione totalmente vegetale sarà risolutiva per la salvezza degli animali e del Pianeta e per la salute della popolazione.
LEAL SCEGLIE E PROMUOVE LA SCELTA VEGANA
Fonte: → Agrifood Today.

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7 Feb, 2019
Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.
La notizia, così come è data, è una di quelle che allargano il cuore, almeno di coloro che negli immigrati non vedono nemici da cui difendersi, ma umani in difficoltà meritevoli di solidarietà: tre di loro hanno iniziato una nuova vita, assunti da un imprenditore in un paesino della Calabria, all’interno della Sila: fanno i macellai.
Si tratta di tre giovani africani, arrivati da paesi dannati per violenza e povertà (Nigeria, Sierra Leone, Guinea Bissau) con viaggi divenuti drammaticamente usuali, segnati dal deserto e poi da anni di una prigionia fatta da torture irriferibili quale unica cifra della relazione con i potenti e i prepotenti del luogo, e infine un tutt’altro che scontato salvataggio in mare. L’assunzione (a tempo indeterminato !!!) è un epilogo insperato, del quale il datore di lavoro e i suoi concittadini rivendicano orgogliosi l’iniziativa generosa e i tre immigrati considerano una opportunità, che riverbera sull’Italia e gli italiani sentimenti di apprezzamento e gratitudine.

Foto Jo-Anne McArthur
Lieto fine quindi? Forse, ma anche qualche riflessione un po’ più molesta, stimolata dall’associazione con realtà analoghe, più in grande stile, ma di segno davvero simile, considerato che il lavoro di cui si parla contempla il portare a termine “quasi tutto il ciclo della produzione”: in altri termini, la macellazione degli animali. L’associazione è con la notizia di un paio di anni fa, proveniente dal Canada, dove il ministro federale dell’occupazione pensò di assumere rifugiati siriani nei macelli della federazione, in risposta alla non disponibilità dei cittadini canadesi, pur afflitti da una crescente disoccupazione, ad accettare un lavoro basato sull’uccidere animali e lavorare le loro carni. Per quanto riguarda l’assunzione dei tre ragazzi, ci si chiede come mai, in una terra come la Calabria, gravata da indici di disoccupazione alle stelle, quei posti non risultassero già occupati da cittadini italiani.
Spesso il lavoro non lo si può scegliere e, quando si è in reale difficoltà, tanti sono i compromessi che si è disposti ad accettare: ma ciononostante, e pure in periodi di crisi conclamata, quello del macellaio conserva evidentemente la forza respingente che ha sempre portato con sé, fin dall’antichità: lavoro fondamentale visto il grande apprezzamento della carne, come alimento; e lavoro “onesto”, visto che non trasgredisce norma alcuna. Malgrado tutto ciò, lavoro connotato da un disprezzo non espresso a parole, ma nei fatti, tanto forte da assumere una chiara valenza sociale, che lo vede riservato da sempre agli schiavi o, in mancanza, agli strati più miseri della popolazione. Non molto è cambiato nella sostanza nel corso di secoli e millenni: ancora oggi in India a svolgerlo rimangono i paria, sopravvissuti nei fatti alla propria eliminazione legale quale casta reietta; negli Stati Uniti lo fanno spesso gli immigrati clandestini, provenienti dal Messico, senza diritti e senza riconoscimenti, e di conseguenza facilmente ricattabili. In Canada il ricorso agli immigrati esce dalle pieghe del sottobosco illegale ed assume i risvolti di una proposta strutturata, colorata dalle sfumature dell’accoglienza. In Australia si ricorda l’iniziativa di instradare i carcerati al lavoro di macellaio, in preparazione a quello futuro, da esercitare nel mondo libero una volta scontata la pena[1].
Una tale omogeneità di atteggiamenti, sparsa per i continenti, non può certo essere casuale: di fatto quella nei macelli è rimasta attività negletta, a causa delle pesanti condizioni in cui viene effettuata e dei salari tutt’altro che appetibili, ma anche per la connotazione tossica che mantiene, e ancora di più per quello che a volte è lo sconquasso psichico che il lavorarci dentro comporta: si tratta di stare a contatto con la morte violenta di esseri senzienti per la durata della giornata lavorativa, pungolarli ad avanzare nel terrore verso la propria morte, indifferenti alle loro urla disperate che pure invadono le orecchie, agire su di loro con una brutalità, che è parte integrante, imprescindibile, del lavoro stesso: sangue, vomito e feci intorno.
Lo svolgimento della vita di umani e nonumani nei macelli è denunciata nella sua insopportabile durezza da almeno un secolo, da quando il libro The jungle[2] (Upton Sinclair, 1906) ne portò allo scoperto tutto l’orrore: significativo che le reazioni sdegnate che ne seguirono furono innescate molto più dallo scandalo per le terribili condizioni igieniche, foriere di possibili conseguenze per gli umani, che dall’indignazione per il trattamento degli animali.
Ancora oggi, pur sulla scorta di un’accresciuta sensibilità nei confronti degli animali, a smuovere le coscienze nei confronti della realtà dei mattatoi non sempre è la loro difesa: non è raro, infatti, che le inchieste siano seguite solo da una sorta di denuncia sindacale, per la violazione dei diritti dei lavoratori: come se fossero solo questi i diritti violati. Denuncia sindacale che comunque resta imperfetta, incapace com’è di mettere a fuoco, tra i tanti rischi e i fattori patogeni di cui i lavoratori sono vittima, il peso psichico, le ricadute sull’emotività, l’incidenza negativa su aspetti della personalità, tutti elementi che talora si strutturano in vere e proprie patologie psichiche, che restano ancora escluse dal focus della salute sul lavoro.
A questa omissione dovrebbe ormai essere posto rimedio data l’esistenza di studi che hanno inquadrato con un nome e dato diritto di riconoscimento al forte disagio, che può derivare dall’essere perpetratore in prima persona di una violenza reiterata, legale o meno che sia: si tratta di un disordine psichico, il “trauma del perpetratore” (Pits, Perpetration-Induced Traumatic Stress), conseguente alla partecipazione diretta ad uccisioni di massa, che si manifesta con sintomi quali depressione, dissociazione, paranoia, ansietà, panico, abuso di sostanze, incubi violenti. Se primi oggetti di studio sono state le situazioni caratterizzate da vittime umane, le stesse dinamiche sono ormai riconosciute anche nei contesti in cui le vittime sono animali; tipico il caso, per esempio, di veterinari indotti a procurare la morte di molti soggetti sani, per esempio in risposta ad una “superproduzione”, un eccesso di individui, scomodi al “sistema”. In altri termini, uccidere a ripetizione può traumatizzare chi lo fa: anche se si tratta di Animali.
Approfondire la situazione nei macelli, luoghi gravati da “ambiguità morale” secondo le parole della sociologa australiana Nik Taylor, fino a riconoscerne la potenziale essenza patogena per i lavoratori, potrebbe avere conseguenze davvero grandi.
La vita dannata al loro interno è testimoniata, oltre che dai filmati clandestini, dalla letteratura, per sua stessa natura in grado di vivificarne la rappresentazione con la costruzione di personaggi che ne portano in sé la drammatica complessità. È il caso della brasiliana Ana Paula Maia con il suo “Di uomini e di bestie”[3], libro in cui il mattatoio emerge come luogo oscuro e maleodorante e i lavoratori come bastardi “nessunizzati”, calati in una catena di morte che uccide decine o centinaia di animali al giorno, per pochi centesimi ognuno volendo fare i conti. Per loro ogni giorno è dramma; qualcuno è parte così incistata nel meccanismo violento delle uccisioni da prolungare artatamente la sofferenza delle vittime per gustare il piacere perverso che ne deriva; qualcuno è emotivamente anestetizzato, incapace di modulare le proprie reazioni a seconda che abbatta un bue nel mattatoio o invece un motore in un’officina; qualcuno restituisce alla volontà divina la responsabilità del lavoro sporco che gli tocca fare a beneficio di altri, che non ci stanno a svolgerlo. Chi possiede una capacità empatica che dilata nel suo petto la sofferenza di ogni animale come fosse propria, incanala la sua protesta nel ruolo di giustiziere e ripropone contro un compagno di lavoro sadico lo stesso gesto con cui stordisce ogni animale: spaccandogli la testa, senza esitazione e senza rimorsi, perché lui sì che se lo è meritato, non come i buoi dagli occhi neri e profondi che cercano inutilmente il suo aiuto dall’ingiustizia o le pecore, che si inginocchiano e piangono quando muoiono. Lì dentro uomini e animali respirano lo stesso odore della morte, gli uni e gli altri vittime: ma solo gli animali davvero innocenti, perché “gli uomini delle bestie” sono al tempo stesso anche carnefici, per sempre contaminati dal sangue.
Per tornare alla notizia di apertura: per quanto non siano disponibili dati statistici sulla provenienza dei lavoratori nei macelli italiani, gli stranieri sono di certo molti, in alcuni casi, come pare nel macello di via Treves a Torino, addirittura la totalità degli assunti. Se il lavoro di macellare gli animali sta progressivamente diventando appannaggio di immigrati, bisogna aggiungere un’ulteriore riflessione: chi arriva da terre di guerra, sangue, morte e sopraffazione, immesso in un luogo di altro sangue, altre morti e altre sopraffazioni, è condannato a rivivere in forma diversa le tragedie da cui ha tentato di fuggire: passare dal ruolo di vittima a quello di carnefice non esenta dalla immersione in un inferno di sofferenza, quando forse nelle speranze e nei progetti vi erano pace e solidarietà.
È il tempo di vedere i mattatoi per quello che sono, luoghi di violenza, fucine di brutalità, destabilizzanti per loro stessa natura. La risposta, se vogliamo restare umani, non è riservarli a chi sta peggio: è tempo di chiuderli, perché, diceva Guido Ceronetti, “per quanta giustizia possa esserci in una città, basterà la presenza del mattatoio a farne una figlia della maledizione”.
L’argomento è trattato più estesamente in “Sulla cattiva strada”, Sonda 2014
[1] Programma “Sentenced to a Job” del Governo del Territorio del Nord del continente australiano.
[2] Upton Sinclair: “The jungle”, Net, Milano 2003.
[3] Ana Paula Maia: “Di uomini e di bestie”, La nuova frontiera 2016
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5 Mar, 2016
Vi proponiamo una recentissima investigazione di L214 Éthique et Animaux: attivisti francesi si sono introdotti nel macello francese di Vigan, e hanno rischiato la propria incolumità per diffondere le immagini di un mattatoio che macella animali allevati in fattorie biologiche. Il video (vedi sotto) che sta girando viralmente ed è stato trasmesso anche dalla televisione francese testimonia, una volta di più l’ipocrisia della scelta di un “prodotto più sano” legato al “benessere animale”. Chi ha già smesso di mangiare carne e nutrirsi di prodotti di origine animale si batte per fare che le persone riescano a collegare tutta questa sofferenza alla loro scelta. Non meno preoccupante l’inerzia dei più che pur conoscendo la realtà non smette di mangiare animali e non interviene per cambiare le cose.
A compendio del video, Carla Sale Musio psicologa e psicoterapeuta, autrice del blog “io non sono normale: IO AMO” ci regala la sua testimonianza toccante e convincente sulla scelta vegana. (Silvia Premoli)
Da quando ho smesso di mangiare la carne
di Carla Sale Musio
[→ http://carlasalemusio.blog.tiscali.it/]
Da quando ho smesso di mangiare la carne, mi succede spesso di sentirmi diversa e anormale in un mondo che considera con indifferenza l’uccisione per il solo piacere del gusto.
Ma devo ammettere, con un certo imbarazzo, che da allora molte cose per me sono cambiate.
Fino al momento in cui ho preso la decisione di non nutrirmi più con la vita di qualcun altro, mi era sempre sembrato naturale addentare una bistecca chiacchierando allegramente con gli amici.
E certamente non ignoravo che la carne, prima di essere cucinata, condita e servita in un piatto, era un corpo e apparteneva a qualcuno.
Qualcuno che sicuramente non voleva morire per soddisfare il mio appetito ma che, probabilmente, desiderava vivere ancora.
Lo sapevo anche allora, solo che la mia mente cercava di dimenticarlo perché anche io, proprio come chiunque altro, non volevo pensarci e nascondevo con noncuranza questa informazione facendo finta che non fosse così.
Guardavo il sangue e sentivo soltanto l’acquolina in bocca.
Lasciavo che il mio palato venisse soddisfatto dagli aromi, mi abbandonavo al piacere della conversazione e ammutolivo la consapevolezza, annegandola nel cibo e nella compagnia.
Da quando ho smesso di mangiare la carne, però, questo meccanismo di difesa (chiamato in gergo psicologico “rimozione”) ha smesso di funzionare e così sono sempre terribilmente lucida su ciò che è vita e ciò che invece è morte.
Adesso, quando vedo tutti quei pacchetti incellofanati, con dentro le membra squartate e sanguinolente di tante creature miti, fiduciose e innocenti, sento le lacrime pungermi gli occhi e il mondo mi appare in una luce intensa e senza ombre.
Da quando ho smesso di mangiare la carne, la vita ha assunto una chiarezza che evidenzia la verità, senza censure e senza mistificazioni, e una trasparenza che mette in luce i lati negativi di me stessa in tutta la loro dolorosa realtà.
C’è un prezzo da pagare per ogni scelta e quella di diventare vegana non è stata facile, mi è costata molte privazioni e sacrifici.
Ho rinunciato a credere nella bontà, mia e degli altri, e ho dovuto ammettere la crudeltà di un mondo che ignora la sofferenza.
Ho sacrificato la mia ingenuità, imponendo a me stessa di guardare l’indifferenza negli occhi quando con dolore ne ho scoperti i sintomi fin dentro la mia stessa anima.
Avrei preferito poter salvare almeno la coerenza e non dover riconoscere i crimini, commessi con superficialità e ignoranza, per aver concesso al mio bisogno di approvazione di seguire il branco in quei riti tribali, chiamati pranzi e cene, dove si compiono i sacrifici di tante vittime innocenti.
Ma come molti altri anche io ho goduto, ignorando la morte e il dolore, convinta che fosse del tutto naturale uccidere per soddisfare il piacere del gusto.
Ho dovuto privarmi della mia immacolata perfezione e accettare che, proprio come il peggiore dei nazisti, per mano dei miei sicari ho torturato e ucciso creature che non mi avevano fatto niente, giudicandole inferiori e perciò passibili di morte e di ogni abominio, sulla base dei tratti somatici e di una cultura differente da quella della razza in cui mi riconosco e sento di appartenere.
Avrei voluto scoprirmi migliore e proclamare a testa alta la mia innocenza davanti ai delitti di chi ammazza per divertimento, per sport e per il piacere del proprio palato.
Ma ho dovuto rinunciare al vantaggio di stare dalla parte del giusto e confessare che, come tutti gli altri, sono stata spietata, cinica, indifferente, insensibile e priva di umanità perché anche io ho lasciato che la morte si perpetuasse senza sosta, solo per il piacere di sentire un sapore buono in bocca.
Che brutta sorpresa scoprirmi così crudele e priva di discernimento!
Che sofferenza tollerare di essere gregaria, conformista, qualunquista e opportunista, priva di amore, di pietà e di rispetto per gli altri esseri che insieme a me popolano la terra.
Esseri che non distruggono il pianeta per mangiare innumerevoli volte in un solo giorno, che non soffrono di sovrappeso, cellulite e obesità, che non prendono psicofarmaci e che non hanno malattie mentali, prostituzione, pedofilia, sfruttamento, inganno e usura.
Esseri che rispettano la natura e che convivono con le altre specie senza distruggere ciò che hanno intorno per divertimento.
Esseri miti che si lasciano condurre a morire piuttosto che ribellarsi alla violenza e alla ferocia dei loro carnefici.
Quando ho smesso di mangiare la carne, ho dovuto anche smettere di credere a quello che dicono tutti, per cominciare a seguire le istruzioni del mio cuore.
E ho scoperto che non è possibile vivere sereni cibandosi di morte, perché la nostra anima conosce i crimini commessi nel silenzio e in quel silenzio li osserva, senza giudizio e piena di dolore, aspettando con pazienza che arrivi il momento di liberarsi da quella zavorra di angoscia che appesantisce il cuore.
Ma tanti strati di sofferenza inespressa creano una coltre sulle percezioni e intorpidiscono la comprensione della vita rendendola greve e priva di significato.
Scoprirsi complici di tanti abomini oscura l’immagine idealizzata che vorremmo avere di noi stessi e ci costringe a cambiare per diventare migliori.
Perciò, da quando ho smesso di mangiare la carne, a malincuore ho dovuto rinunciare a credere nella mia bellezza illuminata di essere prescelto da Dio per portare la saggezza in un mondo popolato di bestie, rozze e prive d’intelligenza.
E ho dovuto ammettere con umiltà che proprio quelle bestie sono i maestri venuti a dimostrare con l’esempio della loro esistenza cosa vuol dire rispettare il creato, la natura e la vita.
Così, da quando ho smesso di mangiare la carne, non sono più l’eletta rappresentante di una razza superiore ma una fra tanti, colpevole di aver creduto con presuntuosa arroganza che al mondo esistano vite di serie A e vite di serie B.
E con umiltà ho dovuto riconoscere che la vita è sempre un valore assoluto, a chiunque appartenga.
Oggi, quando mi trovo in mezzo a una di quelle belle riunioni conviviali, ricche di antipasti e di tante portate succulente, sono oggetto di curiosità, di scherno o di commiserazione, da parte di quelli che, proprio come me, occultano a se stessi la consapevolezza in nome di un sapore a cui sacrificano il valore della vita.
Spesso mi piacerebbe raccontare cosa si prova scegliendo di non cibarsi della morte, e spiegare come il percorso verso il raggiungimento dell’umanità passi attraverso il riconoscimento che ogni creatura ha diritto alla propria esistenza, senza essere il pasto di nessuno.
Ma so che è inutile intestardirsi nel tentativo di combattere la rimozione per proporre un’idea che ancora non può essere accolta nella coscienza.
So che io stessa in passato sono stata così, insensibile e priva di umanità.
Ognuno deve fare il suo percorso e trovare da solo, nascoste in fondo all’anima, le ragioni per cui la vita è degna di essere vissuta con amore, con umiltà e con rispetto.
Perciò, da quando ho smesso di mangiare la carne, lascio che tutti compiano i propri sbagli con noncuranza, convincendo se stessi di essere nel giusto e soffrendo un dolore di cui diventa sempre più difficile scovare le radici perché strati di prevaricazione censurata impastano l’anima dando forma a una vita senza chiarezza.
E mentre cerco di condividere il mio pensiero e le mie scelte, capisco che ciò che è giusto per me è incomprensibile per qualcun altro, convinto di appartenere a una razza prescelta da un Dio che fa figli e figliastri, e perdona e punisce secondo un criterio arbitrario e pericolosamente narcisista.
Allora parlo, sapendo che le mie parole raggiungeranno soltanto le persone pronte per condividerle, e con gratitudine ringrazio chi, nel passato, ha avuto con me la stessa risoluta determinazione, mentre da sola costruisco un mondo in cui non ci sarà sopraffazione, ma tutti potremo vivere in armonia scambiando i doni delle nostre culture gli uni con gli altri.
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